domenica 29 settembre 2019

DA «FORZA ITALIA» A «ITALIA VIVA» E RITORNO»!!!

«Partita quindi come una commedia alla Ben Stiller con gag incalzanti da italiuccia, il film prende la strada della migliore tradizione monicelliana-risiana in cui siamo stati maestri - diventa quindi amara e fa riflettere. Con qualche punta di lirismo che non stona. Il ritmo resta buono e ben equilibrato fra risate sincere (i vecchi ricoverati in ospedale sono in assoluto i migliori) ed emozione.
Alla fine gli orrori degli "italiani, brava gente", saranno in parte emendati da un anelito alla verità: un nuovo articolo della Costituzione sarà auspicato e applaudito: ARTICOLO 140 "Tutti i cittadini hanno il diritto di conoscere la verità". I personaggi si rimboccano le maniche e si danno da fare per contare, almeno una volta nella vita, per un'azione fatta e non per "grazia" ricevuta. Così infrangono la legge dell'apparire, abbassano le maschere e si congedano con un inchino ed un calcio all'ipocrisia. Sipario.»
"Chiusa" della Recensione di Simona Previti

Un gioiellino davvero, questo film di Massimiliano Bruno che, come ben sottolinea Simona Previti, s'inserisce perfettamente nella migliore tradizione della COMMEDIA ALL'ITALIANA, QUELLA CHE APPUNTO FA "RIDERE AMARAMENTE E AL CONTEMPO FA RIFLETTERE SERIAMENTE". E non a caso usciva nel 2012, alla vigilia di RIVOLGIMENTI POLITICI in cui giungevano ad una "prima maturazione" TALUNI FERMENTI INCUBATI NELLA «SOCIETÀ CIVILE ITALIANA» QUALCHE ANNO PRIMA, e precisamente nel 2006, quando un COMICO POLITICO (da non confondere mai con i molti POLITICI COMICI!) lanciava da molte piazze il suo VAFFA nei confronti di UNA "CASTA DI POLITICANTI" SEMPRE PIÙ LONTANA DALLA "MOLTITUDINE DI CITTADINI SOFFERENTI E INSOFFERENTI" E SEMPRE PIÙ ASSERRAGLIATA NEI PALAZZI DEL POTERE! E CASTA non erano solo le OLIGARCHIE DELLA DESTRA che si era affermata col FACCENDIERE PIDUISTA DI ARCORE (forse il "massimo antesignano" del POPULISMO CONTEMPORANEO!) il quale, anche grazie al suo STRAPOTERE MEDIATICO, era riuscito nella notevole quanto inquietante operazione di "temperare" i LEGHISTI RIOTTOSI e "sdoganare" i NEO-POST-FASCISTI (portando entrambi con sé al governo del Paese), imponendo il "bipolarismo", nossignore; CASTA erano anche le OLIGARCHIE DI (ORMAI FINTA!) SINISTRA (peraltro in quel momento al governo con Prodi) che da parecchi anni, svenduto rapidamente un IMMENSO PATRIMONIO IDEALE, avevano allegramente abbracciato il TRIONFANTE NEOLIBERISMO (con una formula per tutte: il CAPITALISMO "BEN TEMPERATO")! Va sottolineato che, apparentemente contrapposte, AMBEDUE LE OLIGARCHIE erano (e sono!) in realtà COLONNE PORTANTI DEL "SISTEMA ECONOMICO-FINANZIARIO GLOBALE", tant'è che dominavano tranquillamente anche nelle e dalle ISTITUZIONI EUROPEE, attraverso le rispettive "grandi famiglie di riferimento" dei POPOLARI e dei SOCIALDEMOCRATICI!
Questa STRUTTURA POLITICA BIPOLARE, che prevedeva una "formale alternanza al potere con spostamenti d'accento che ne lasciavano però intatta la sostanza di fondo" (CRESCITA ECONOMICA = SEMPRE MAGGIORE CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA NELLE MANI DI POCHI!), comincia a scricchiolare già nel 2007-08, quando la tempesta finanziaria innescatasi negli USA con i famigerati "mutui subprime" si abbatte sull'intero mondo globalizzato sotto forma di una GRANDE CRISI, forse peggio ancora di quella che aveva meritato tale appellativo nel 1929 (tant'è che ne subiamo a tutt'oggi i micidiali contraccolpi)! L'Italia, NEL BENE E NEL MALE UNO "STRAORDINARIO LABORATORIO POLITICO E SOCIALE", è il Paese europeo (peraltro tra i "fondatori della UE"!) che pare registrare la maggiore sensibilità a tali "sommovimenti tellurici", e infatti quando questi, moltiplicando i loro effetti, alla fine del 2011 finiscono per travolgere l'ennesimo (s)governo Burleskoni, è l'Europa stessa, onde "evitare guai peggiori" (il "fallimento" dell'Italia avrebbe "gravissime ripercussioni sull'intero continente e oltre": «L'Italia non è la Grecia»!), a commissariarci con un noto "castigamatti", l'ill.mo e accademicissimo prof. Mario Monti (per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Monti).

Attenzione al titolo: «Viva l'Italia»; e attenzione alla "cronaca politica odierna", che vede la nascita nel nostro Paese di una "nuova formazione partitica": «Italia Viva». Di qui la riflessione che stiamo sviluppando! [segue]

SINISTRA "PURA E DURA"?!?... MACCHÉ, AL MASSIMO "SCETTICA"!!!

Lo “scettico blues” del solito diffidente di sinistra-sinistra

Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano del 25 Settembre 2019

«Il patto europeo sui migranti? Bah, chissà se poi funziona, ci credo poco. L’accorato appello sul clima di Greta all’Onu? Ma dai, tra una settimana non ne parla più nessuno. Tassare gli zuccheri per raggranellare qualche soldo e abbassare la glicemia? Figuriamoci, una merendina in più o in meno cosa cambia? Nello Scettico blues (italianizzato “blu” dal fascismo) di Ettore Petrolini, un tipo in frac e smorfia amara va “senza lusinghe pel mondo ramingo” da quando “il suo primo amor gli sconvolse la viiita”. “Cosa m’importa se il mondo mi rese glacial, se di ogni cosa nel fondo non trovo che il mal”, canta pure lo Scettico rouge dei nostri giorni, imbronciato cronico perché lui è così talmente di sinistra, laico, democratico, antifascista e antirazzista che, per nulla convinto dal governo giallorosso, mette in guardia “chi si illude d’amor e d’inganno non sa che c’è il fango quaggiù in funzion di virtù”. 

Nei tremendi quattordici mesi appena trascorsi, lo Scettico sbarrava porte e finestre temendo l’arrivo delle squadracce del camerata Matteo Salvini, e stipava la dispensa di derrate e generi di prima necessità accingendosi a una lunga, perigliosa resistenza. Poi, inopinatamente dileguatesi le camicie nere, giunge l’alba del nuovo giorno, ma lui “guarda e sogghigna giocondo non si lascia ingannar”. All’occhio scettico dello Scettico rouge non sfugge infatti la natura ambigua, trasformista, voltagabbana del premier che pure prese a ceffoni il ducetto verde in pieno Senato. Eh no, troppo facile dopo che nei hai sottoscritte le porcate, bofonchia disincantato il nostro evidentemente forgiato nella fucina del ferro e del fuoco.

Quando lo Scettico, indefettibile e immarcescibile presenzia nei talk si distingue per lo sguardo glaciale e il canepino zeppo di rimostranze. Di Maio? Ma come, un ministro degli Esteri che non mastica le lingue? Gualtieri? Ma come un ministro dell’Economia che di mestiere fa lo storico?
Nella sua marmorea fissità intellettuale, lo Scettico emette sentenze senza appello (in genere preda di malumori esistenziali o digestivi). Il suo pensiero, crepuscolare tendente all’oscurità, lamenta sempre e comunque l’assenza di sinistra (di cui si ritiene tra i pochi depositari, insieme al Cipputi di Altan). Egli si proietta anelante verso l’inevitabile apocalisse, ovvero il ritorno trionfale di Salvini sui colli fatali di Roma.
Nella sua insofferenza verso quella che considera una finta liberazione (e forse anche un tradimento) lo Scettico rouge si trova sovente a convenire con le tesi del nemico (sempre da sinistra, naturalmente). E dunque, i naufraghi salvati dalle navi della Marina Militare non sono più quei poveri disgraziati che il malvagio Capitano lasciava cuocere dal solleone, bensì un preoccupante segnale di buonismo che potrebbe tornare comodo al malvagio Capitano.
E se il ministro dell’Istruzione chiede ai presidi di chiudere un occhio con gli studenti che intendono partecipare alla marcia sul clima, lo Scettico si duole del lassismo che imperversa nella scuola pubblica. In realtà, lo Scettico rouge tutto d’un pezzo si spezza ma non si spiega. Non sa quello che vuole basta che non lo vogliano gli altri. Aborre ogni tipo di badoglismo. E in cuor suo non vede l’ora di tornare a imbracciare (metaforicamente) il fucile contro l’oppressore, e di salire (metaforicamente) in montagna cantando “passano le gioie e dolor, sento il soffio del ben, sento il soffio del mal, la nequizia e il candor”.»

 


mercoledì 25 settembre 2019

«NEOLIBERISMO E "MALESSERE MENTALE DIFFUSO"»!!!

Franco Palazzi, Accademia e depressione

Un bilancio sul rapporto tra disagio mentale e gestione neoliberale dell'università.

Franco Palazzi è dottorando in filosofia all'Università di Essex e autore di "Tempo presente. Per una filosofia politica dell'attualità" (ombre corte, 2019). Ha scritto, tra gli altri, per Doppiozero, Effimera, Jacobin, Le parole e le cose, OperaViva Magazine e Public Seminar.
 
«Nel 2009 la sociologa britannica Rosalind Gill firmava un saggio inusuale, i cui dati – ammetteva in uno dei primissimi paragrafi – mancavano del tutto di scientificità. L’autrice affermava anche, in una postilla finale, che il testo era andato vicino al non essere scritto affatto, dal momento che aveva temuto a lungo che il suo contenuto potesse venire giudicato non solo irrilevante, ma addirittura “osceno” e “narcisistico”. C’erano insomma elementi più che sufficienti per considerarlo un contributo alquanto inusuale al volume accademico nel quale si inseriva, pubblicato da un prestigioso editore. Perché mai un’affermata studiosa avrebbe dovuto mettere a rischio la propria reputazione per dare alle stampe un saggio del genere? Il titolo ricordava più l’incipit di una confessione che quello di una ricerca per addetti ai lavori – recitava, testualmente: “Rompere il silenzio. Le ferite nascoste dell’università neoliberale”.  L’aggettivo neoliberale, come tutte le parole di fronte alle quali si inizia ad annuire nervosamente perché chiunque sembra usarle ma nessuno pare conoscerne l’esatto significato, potrebbe facilmente suscitare delle perplessità. Negli ultimi decenni il neoliberalismo è stato definito, tra l’altro, come un progetto politico per accrescere il potere delle élite economiche, una corrente intellettuale, un regime di governo, un tipo di discorso, una tecnica di potere o un assetto istituzionale. Sarebbe tuttavia errato subordinare la riflessione sul testo di Gill all’intricato dibattito specialistico sul neoliberalismo – il suo contributo si concentra infatti su un ambito ben più circoscritto: l’accademia neoliberale. 
Paradossalmente, nonostante il disaccordo anche aspro sul termine più generico, sembra esserci un sostanziale consenso sulla realtà da far corrispondere all’università neoliberale. Con tale espressione possiamo infatti intendere, piuttosto genericamente, una situazione in cui il mercato è ritenuto il principio organizzativo ideale della formazione e della ricerca universitarie, con tutte le ripercussioni che ne derivano – l’importanza crescente attribuita dagli atenei ai finanziamenti privati; la precarizzazione sistematica dei lavoratori e delle lavoratrici del settore; la rappresentazione di studentesse e studenti come consumatori potenzialmente disposti all’indebitamento per finanziare i propri studi e delle università stesse come imprese in competizione le une con le altre, le cui performance vengono valutate tramite indicatori quantitativi standardizzati. 
Ad un tale livello di generalità, la nozione di università neoliberale può applicarsi facilmente (quantomeno) a buona parte dei sistemi educativi dei paesi cosiddetti occidentali. Tenendo a mente questa definizione, possiamo iniziare a comprendere quanto Gill affermava all’inizio della propria analisi – che nelle sue parole toccava 
molte cose: sfinimento, stress, sovraccarico di lavoro, ansia, vergogna, violenza, dolore, senso di colpa – e i sentimenti di alienazione, disonestà e paura di venire smascherati nell’accademia contemporanea. Tali stati d’animo (…) sono da un lato ordinari e quotidiani, ma al tempo stesso rimangono ampiamente segreti o messi a tacere negli spazi pubblici delle università. Vengono articolati in un registro linguistico differente, meno privilegiato; sono materiale per le chiacchierate in corridoio, le pause caffè e le conversazioni personali tra amici, ma non per le  prolusioni alle conferenze o le pubblicazioni accademiche o financo le riunioni di dipartimento.
Se gli accademici sono diventati essi stessi soggetti neoliberali – lavorando potenzialmente 24/7 tramite contratti spesso precari e con l’imperativo costante di dover essere più produttivi ed efficienti (non senza la paradossale richiesta aggiuntiva di apparire al contempo felici della propria condizione) – le conseguenze negative che scaturiscono dal loro ambiente di lavoro, le “ferite” che esso comporta, tendono a rimanere nascoste, per una serie di ragioni. Anzitutto, le caratteristiche delle attività svolte in università e centri di ricerca sono particolarmente esposte a rappresentazioni distorcenti, che trasfigurano quello che è a tutti gli effetti un lavoro in una missione (gratuita o sotto-retribuita). In tal modo l’insegnamento e la ricerca vengono descritti come attività svolte per passione, soddisfacenti in se stesse e perciò – secondo una logica perversa che concepisce il lavoro salariato come mera sofferenza – non degne di essere regolarmente pagate. Si avverte qui una chiara eco di ciò che negli anni ’70  le femministe chiamavano labour of love nella loro critica serrata del lavoro domestico gratuito – e tale riferimento ci rimanda alla vulnerabilità intersezionale di alcuni segmenti del personale accademico, con le donne e le persone razzializzate esposte ad una mole anche maggiore di “ferite nascoste”.
In secondo luogo, come notava la stessa Gill, l’attitudine a tenere costantemente sotto controllo i propri ‘privilegi’ (check-your-privilege) tanto comune in alcuni ambienti universitari finisce a volte con il generare inavvertitamente una forma di silenziamento, consentendo alle persone che li popolano di mettere a fuoco unicamente casi estremi di ingiustizia e sofferenza – come se il semplice fatto che altre persone se la passino peggio privasse di ogni margine per criticare la propria situazione. Così facendo, la vita all’interno dell’accademia neoliberale non viene solitamente ritenuta un argomento degno di indagine scientifica – lasciando i pochi che hanno sia la possibilità che la volontà di parlarne nella posizione di condurre unicamente ricerche che saranno bollate, nei termini di Gill, come completamente carenti di scientificità.
Per quanto tali esperienze siano senz’altro più frequenti in alcuni comparti della forza-lavoro universitaria (ricercatori e ricercatrici con incarichi precari, docenti a contratto, dottorande e dottorandi), la loro rilevanza complessiva non può in alcun modo essere ignorata. Nel 2017, Gill cominciava un follow-up del saggio precedente con le seguenti osservazioni:
Negli anni trascorsi [dalla pubblicazione del primo testo] ho passato difficilmente una sola settimana senza ricevere almeno due o tre email da persone che mi scrivevano come e perché erano state toccate dal mio scritto. Molte volte si trattava di espressioni di gratitudine e sollievo per il non sentirsi più così sole. (…) Il mio archivio di lettere e messaggi ammonta ormai a circa duemila documenti – un autentico catalogo di racconti di esperienze tossiche all’interno dell’accademia neoliberale che accresce la mia sensazione che una crisi profonda, al livello tanto affettivo quanto somatico, stia avendo luogo.
Il bilancio formulato in questo secondo contributo è complesso e ambivalente. Gill notava che “il silenzio è stato rotto” e che si è registrato negli ultimi anni uno spostamento del dibattito sulla trasformazione degli atenei e le condizioni di vita al loro interno – un processo che sta lentamente avviandosi anche in Italia. D’altro canto, in anni recenti la neoliberalizzazione delle università si è ulteriormente velocizzata – al punto che negli Stati Uniti tre quarti dei docenti di college lavorano senza nessuna possibilità di assunzione a tempo indeterminato, mentre nel Regno Unito un accademico deve affrontare in media tredici ore di lavoro straordinario a settimana.
In questo scenario, molte delle risposte istituzionali alla neoliberalizzazione hanno riprodotto le medesime tendenze individualizzanti che autrici come Gill tentano di contrastare. Così i servizi di counselling e assistenza sanitaria interni alle università tentano di rispondere con corsi, sessioni di training, yoga, meditazione, eventi su come ottimizzare il tempo o “avere a che fare con persone difficili” – vale a dire attività incentrate più sul diventare resilienti di fronte ad un contesto lavorativo percepito come immodificabile che a produrre un qualche cambiamento profondo.
Nell’abbozzare una serie di proposte per far progredire il dibattito, Gills rivendicava l’urgenza di un’analisi più approfondita del “devastante aumento di cattive condizioni di salute come effetto somatico dell’accademia neoliberale” – è in tal senso che è specialmente significativo considerare il caso della depressione. Nel medesimo anno in cui il saggio di Gill veniva pubblicato un altro accademico britannico, Mark Fisher, dava alle stampe un popolare pamphlet in cui tracciava una prima connessione tra la crescente diffusione della depressione e quanto chiamava realismo capitalista – “la sensazione diffusa che il capitalismo non costituisca soltanto l’unico sistema politico ed economico sostenibile, ma che sia al momento impossibile persino immaginare un’alternativa coerente ad esso”. La narrazione parzialmente autobiografica di Fisher contiene molti riferimenti all’università neoliberale, al suo contributo nel contrastare qualunque forma di uguaglianza sociale ed alla sua ossessione per procedure di valutazione altamente burocratizzate – e ha nel racconto della propria depressione di uomo e accademico uno snodo centrale.
La depressione maggiore occupa un posto singolare fra le ferite dell’università neoliberale. Codificata come una patologia mentale, favorisce in chi ne è affetto una tendenza individualizzante persino più di altre condizioni ‘tradizionali’ – quali lo stress da lavoro o la cronica mancanza di sonno. Dar voce alla propria depressione, notava Fisher, è poi particolarmente difficile, perché essa “è in parte costituita da una beffarda voce ‘interiore’ che ti accusa di autoindulgenza – non sei depresso, sei solo dispiaciuto per te stesso, rimettiti in sesto – e questa voce è suscettibile di essere innescata dal rendere pubblica la propria condizione”.
Negli ultimi anni, una crescita esponenziale dell’evidenza aneddotica sulla diffusione di sintomi depressivi nelle università è stata affiancata da un numero incredibilmente basso di studi accademici sul fenomeno.
Come se non bastasse, la depressione può diventare ancora più insidiosa in ambito universitario: essa sembra scardinare la stessa immagine dell’accademico come persona credibile ed affidabile alla luce della sua (presunta) superiore conoscenza di una determinata materia. Non a caso, nel senso comune la persona depressa è ritenuta affetta da una sorta di disturbo di percezione, una tendenza ad accentuare gli aspetti negativi di qualunque circostanza a scapito di una sua più equilibrata interpretazione – rappresentazione tanto più invalidante se riferita a ricercatrici e ricercatori di cui si presume l’avalutatività. L’accademico depresso troverà pertanto difficile parlare della sua condizione, che resta ammantata da un tabù tanto maggiore in contesti dove la produttività viene incoraggiata (o estorta) incessantemente e l’“eccellenza” misurata senza tregua. 
Negli ultimi anni, una crescita esponenziale dell’evidenza aneddotica circa la diffusione di sintomi depressivi nelle università è stata affiancata da un numero incredibilmente basso di studi accademici sul fenomeno. Per fare un esempio, nel marzo 2014 un articolo scritto da una ricercatrice anonima  apparso su sito del Guardian denunciava sia il diffondersi di numerose forme di malessere psichico nel personale accademico sia il clima di tacita accettazione e silenzio istituzionale che previene l’emersione del problema. Il testo è stato condiviso più di centomila volte, dimostrando il bisogno di canali di espressione per quello che è spesso ritenuto il prezzo da pagare per avere successo nell’università. Da allora, un numero pressoché incalcolabile di racconti più o meno personali è stato affidato a blog e riviste. Nondimeno, mentre centinaia di studi hanno documentato, in un ampio ventaglio di paesi diversi, livelli elevati di sintomi depressivi tra gli studenti universitari, al momento si registrano pochissime analisi analoghe che prendano in esame dottorandi, ricercatori e docenti – per quanto i loro risultati siano nel complesso preoccupanti.
La discrepanza tra il verosimile aumento dei casi di depressione nell’accademia neoliberale e la mancanza di indagine scientifica dell’argomento solleva questioni che sono, inestricabilmente e allo stesso tempo, epistemiche e politiche. Parlare di “ferite neoliberali” espone infatti a una facile obiezione: non c’è nessun modo immediato per mostrare che la depressione (o qualunque altra forma di disagio psichico) sia causata dall’ambiente definito università neoliberale – mancano, tanto per cominciare, fattori causali unitari e misurabili che possano corrispondere a tale nozione. Anche se provassimo a scomporre il concetto (riconducendolo alle variabili menzionate all’inizio di questo articolo), resterebbe quantomeno difficile separare l’influenza dei diversi fattori – ad esempio stabilendo se la precarizzazione contrattuale sia più dannosa per il benessere di ricercatrici e ricercatori delle invasive tecniche di valutazione della ricerca attualmente in voga.
In una sorta di circolo vizioso, queste difficoltà iniziali e la natura politicamente problematica del tema lo rendono un candidato improbabile per l’ottenimento di fondi di ricerca ed una scelta penalizzante per progetti scientifici individuali o collettivi – lasciando così oscillare la depressione accademica tra l’assoluta irrilevanza e la rappresentazione semiclandestina in studi occasionali, condotti per lo più da studiosi che hanno una qualche connessione personale con l’argomento. Emblematicamente, l’unica volta che la depressione accademica si è fatta strada sulle pagine di una pubblicazione accademica di grande notorietà, Nature, è stata confinata nella sezione degli editoriali, invece che ai contributi di ricerca veri e propri.
La conversazione sul rapporto tra capitalismo e salute mentale è stata interrotta o relegata in circoli ristretti.
Poiché il metodologico è politico (e in questo contesto in maniera specialmente evidente), interrogarsi sull’impasse del discorso accademico sulla depressione non è un mero esercizio di stile, ma rappresenta un passaggio ineludibile di una mobilitazione politica in merito. La difficoltà che abbiamo registrato nel caso specifico della depressione accademica non costituiscono un unicum, ma si inseriscono nella più ampia problematica del rapporto tra capitalismo e salute mentale. Dall’antipsichiatria britannica alla Scuola di Francoforte, da alcuni filoni del marxismo al femminismo radicale passando per l’opera irriducibile alle etichette di Deleuze e Guattari, soltanto alcuni decenni fa tale relazione era oggetto di intense elaborazioni teoretiche e politiche – sia dentro che fuori dall’università. Al giorno d’oggi, tuttavia, la popolarità clamorosa perché inattesa di scritti come quelli di Fisher e Gill testimonia il fatto che quella conversazione era stata interrotta – o perlomeno relegata in circoli ristretti, dove il suo potenziale politico è spesso sopravvissuto alle spese di ogni rigore analitico e capacità di influenzare la discussione pubblica. 
Ciò che è accaduto nel frattempo è che la psichiatria – oggi il principale produttore di sapere sul disagio psichico – ha oltrepassato quella che potremmo chiamare, seguendo Foucault, una soglia di scientificità. Questo implica che, lasciando foucaultianamente da parte ogni critica del sapere psichiatrico che si accontenti di ricondurlo ad una qualche semplicistica nozione di ideologia, la psichiatria dell’età neoliberale dovrà essere fatta oggetto di un tipo di indagine critica differente da quella volta a evidenziare la struttura disciplinare del manicomio (i cui resti pure sono giunti strisciando sino a noi). Diversi concetti accattivanti, come psicopolitica (Byung-Chul Han) e narcocapitalismo (Laurent de Sutter) sono stati proposti recentemente proprio per mappare tanto un riassetto del capitalismo – dal fordismo al neoliberalismo – quanto uno spostamento interno alla stessa psichiatria – dai vecchi ospedali psichiatrici alla nuova, biopolitica (o post-biopolitica) psicofarmacologia – con le sue relative controindicazioni
Tuttavia, nessuno di essi sembra fornirci strumenti analitici adeguati: entrambi mostrano una tendenza a ridurre il neoliberalismo ad un unico fattore principale – che si tratti del passaggio dal corpo alla mente come principale sito di produzione o di un certo tipo di narcosi come tecnologia utilizzata per accrescere la produttività economica. Invece che porre effettivamente in dialogo capitalismo e salute mentale, tali nozioni (e altre analoghe) confondono le molteplici dinamiche che intervengono sull’uno e sull’altra per un’unitarietà fittizia, in una sorta di ansia di smascheramento per la quale affermare la verità sulla sofferenza psico-fisica che si accompagna al neoliberalismo coinciderebbe integralmente con la critica radicale di quest’ultimo.
L’approccio volutamente tranchant di questi lavori teorici – che in modo solo apparentemente sorprendente si combina ad un pressoché totale disinteresse per le prassi che già interrogano radicalmente il nesso capitalismo-salute mentale – finisce con il renderli potenzialmente ciechi alla natura complessa e sfaccettata del capitalismo neoliberale, che lungi dal limitarsi ad un semplice intreccio di economia politica ed economia libidinale si presenta come un vero e proprio ordine sociale istituzionalizzato. Parallelamente, a tale visione riduzionistica del neoliberalismo ne corrisponde una del sapere psichiatrico che non tiene conto del suo statuto epistemico attuale. 
Contributi come quelli di Han e de Sutter, al netto delle ottime intenzioni, non costituiscono quindi delle eccezioni alla difficoltà di sviluppare un discorso sull’intersezione di capitalismo e disagio psichico – ma confermano anzi la fatica del sapere accademico (entrambi gli autori sono docenti universitari) di riposizionarsi a sua volta nel rapporto tra i due elementi. L’accademia, come illustrano le riflessioni precedenti, non è più un ambiente privilegiato dal quale muovere cupe profezie su problemi sociali rispetto a cui studiose e studiosi possano conservare una qualche ovattata distanza – ma è una parte rilevante del campo di battaglia dove le trasformazioni sociali vengono attuate.

L’accademia non è più un ambiente privilegiato, è una parte rilevante del campo di battaglia dove le trasformazioni sociali vengono attuate.
Occorre pertanto riprendere la lezione – per nulla meno radicale – di un intellettuale come Basaglia o di Fanon: una denuncia efficace dei possibili effetti di dominazione del sapere psichiatrico e della sua complicità con lo sfruttamento capitalistico (e non solo) passa dal prendere sul serio e dal maneggiare quel medesimo tipo di sapere – rivolgendolo all’occorrenza contro se stesso.  È la strada percorsa negli ultimi decenni dalla cosiddetta critical psychiatry, oggi alle prese con il difficile compito di combinare un’analisi che includa il disagio psichico in una più ampia riflessione sulle conseguenze del neoliberalismo in termini di salute con il rifiuto di assimilare positivisticamente le patologie psichiatriche a quelle ‘fisiche’ in senso forte. Non mancano del resto anche in Italia tentativi virtuosi di rilanciare il dibattito in chiave interdisciplinare – vengono in mente ad esempio il dialogo tra marxismo e psicanalisi lacaniana promosso da studiosi come Federico Chicchi, la notevole serie di interventi firmati recentemente da Francesca Coin sulle intersezioni fra accademia neoliberale, depressione e nuove tecnologie – o ancora la fruttuosa commistione di etnopsichiatria e antropologia tipica dell’opera di Roberto Beneduce
Rispetto agli anni ’60 o ’70, tuttavia, questo rinnovato fermento intellettuale e le sue prolifiche contaminazioni con la riemersione di pratiche politicamente radicali non sono ancora arrivati a lambire il senso comune neoliberale – prova ne è che esso risulta dominante nella stessa accademia in cui si è ripreso ad elaborare un pensiero alternativo in materia di capitalismo e salute mentale. La depressione si ripresenta qui in tutta la sua carica emblematica, incarnando la cifra di un’epoca, la nostra, che a differenza di quella in cui fiorì l’antipsichiatria ha perso una visione positiva del proprio avvenire: così come la persona depressa non riesce a proiettarsi nel futuro, il neoliberalismo ha tarpato ogni ambizione di un futuro migliore e drasticamente differente – facendoci navigare a vista in un eterno presente che è la negazione stessa della temporalità. 
La depressione accademica, in questo contesto, è sia una piccola parte di un quadro più ampio che un caso rilevante in sé. Ritrarre un certo tipo di disagio mentale come “ferita neoliberale” di un gruppo specifico di persone che rappresenterebbe una sorta di avanguardia nello sfruttamento capitalistico del lavoro cognitivo non sarebbe corretto: la circostanza per cui, appartenendo ad un gruppo (relativamente) privilegiato di lavoratori intellettuali, gli accademici sono in una posizione migliore di altri per inquadrare alcuni fenomeni come i sintomi depressivi, offusca il fatto che il malessere psichico è oggi un fenomeno di massa sotto il neoliberismo. Negli Stati Uniti, per citare una statistica fra le tante, una donna bianca su cinque assume antidepressivi – e l’identificazione razzializzata è rilevante non perché le donne nere o latine siano meno depresse, ma perché hanno in media meno accesso all’assistenza sanitaria. Questo significa che, come ho provato ad argomentare diffusamente altrove, la depressione all’interno del mondo accademico neoliberale deve essere provincializzata, situata in un più ampio contesto sociale ed economico, affinché il suo rapporto con il capitalismo sia adeguatamente districato. 
Nondimeno, dal punto di vista di una politica della conoscenza, analizzare tale rapporto all’interno delle università sembra avere anche un peso specifico, almeno se siamo pronti a riconoscere l’accademia come luogo chiave per la produzione di conoscenza critica.  Se la sfida alle narrazioni neoliberali individualizzanti è un primo passo necessario per un’indagine sui potenziali inneschi socio-economici del malessere mentale, gli accademici sono probabilmente in una posizione meno svantaggiata per compiere questo passo. Del resto l’università neoliberale è, per quanto ne sappia, l’unico ambiente dove può capitare di essere costretti a prendere psicofarmaci per consegnare in tempo un articolo sull’abuso di psicofarmaci in ambito accademico – un’esperienza tragicomica che è stata davvero raccontata a chi scrive. Il metodologico, alla fine, non è solo politico – ma anche personale.»
https://www.iltascabile.com/societa/accademia-e-depressione/

domenica 22 settembre 2019

A PROPOSITO DEL «NUOVO DISORDINE MONDIALE»!!!

Marisa Belluscio e Riccardo Noury (a cura di), Il nuovo disordine mondiale. Economia, diritti umani e conflitti, FORMIN' (Centro di Formazione Internazionale) 2002
A distanza di quasi un ventennio questo prezioso testo, frutto di un felice sforzo inter-multidisciplinare, non solo mantiene intatta tutta la sua "carica innovativa", ma risulta, nel complesso, di "straordinaria attualità". La dimostrazione nel "seguente passaggio", di assoluto rilievo, che perciò riportiamo per intero.

«La liberalizzazione dei mercati dell'industria, dell'agricoltura e dei servizi (compreso l'ambito culturale), ha dato un grande impulso al processo di deregolamentazione delle funzioni dell'economia, in particolare la deregolamentazione dello Stato. L'unico compito affidato allo Stato è quello di facilitare l'integrazione dell'economia locale in quella globale. Per tutto il resto, lo Stato dovrebbe essere "disinventato", come proposto dall'Economist il 20 maggio 1995. Lo stato deve lasciare il compito di regolare l'economia alle forze di mercato, al capitale organizzato che circola liberamente su scala mondiale. 
La (de)regolamentazione finanziaria ha così preso il posto della regolamentazione politica. La moneta non è più un mezzo, nelle mani delle autorità nazionali, per guidare e manovrare l'economia nazionale secondo l'obiettivo del benessere e di uno sviluppo umano e sociale giusto ed efficace. Essa è diventata in primo luogo e soprattutto una merce come ogni altra, che viene comprata e venduta sui mercati finanziari globali allo scopo di ottenere il massimo guadagno. Sono gli operatori e i gestori del capitale, dato che questo circola liberamente nei mercati finanziari, a determinare in larga parte il valore delle monete.
Le autorità politiche, specialmente i parlamenti, hanno perso il controllo delle loro monete in modo assai significativo, a vantaggio dei mercati finanziari. I finanzieri dicono che ciò è giusto e normale, dato che si suppone che i mercati finanziari funzionino più razionalmente dei loro governi. Sulla base di questo presupposto (che non è confermato dalla realtà), essi si considerano autorizzati ad imporre quella che chiamano disciplina finanziaria alle autorità politiche nazionali e, naturalmente, ai loro cittadini. Questi ultimi sono così ridotti ad essere considerati e valutati unicamente come consumatori con monete da spendere e come intelligenti azionisti.
La trasformazione delle monete in merci che vengono scambiate nel mercato finanziario globale liberalizzato e deregolamentato, si traduce in una serie di imperativi economici quali:
  • zero inflazione;
  • bilancia dei pagamenti stabile;
  • bilancio in pareggio e conseguente riduzione del debito nazionale;
  • riduzione della spesa pubblica, soprattutto per scopi sociali;
  • riduzione della pressione fiscale sul capitale e incentivi fiscali a favore degli investimenti privati.
Tutto ciò considerato, la dichiarazione del Presidente della Banca federale tedesca al Forum economico mondiale di Davos (Svizzera) il 3 febbraio 1996 che "i dirigenti politici devono sapere che d'ora in avanti saranno sotto il controllo dei mercati finanziari" riflette semplicemente lo stato delle cose.
La trasformazione della regolamentazione economica in pura finanza si sta svolgendo in un contesto caratterizzato da una sempre più evidente dissociazione dell'economia finanziaria dall'economia reale.»
Riccardo Petrella, Il capitalismo globale. Il mondo globalizzato nella sua essenza, ivi, pp. 19-20
 
SAPPIAMO BENISSIMO QUALI SONO STATE, NEL FRATTEMPO, LE TRAGICHE, DEVASTANTI CONSEGUENZE DELLA «DEREGOLAMENTAZIONE FINANZIARIA DELL'ECONOMIA IMPOSTA DA QUELLA "FASE SUPREMA ED ESTREMA DEL CAPITALISMO" CHE ABBIAMO IMPARATO A CONOSCERE COME "NEOLIBERISMO"»: OGNUNO DI NOI LO HA POTUTO ESPERIRE DIRETTAMENTE SULLA PROPRIA PELLE, ALL'INDOMANI DELLA «GRANDE CRISI ECONOMICO-FINANZIARIA DEL 2007-08», CHE ALLUNGA LE SUE OMBRE FUNESTE FINO AL PRESENTE, OVE PERALTRO ASSISTIAMO, FRASTORNATI SE NON ATTERRITI, ALL'ACUIRSI DELLA «GRAVISSIMA EMERGENZA CLIMATICO-AMBIENTALE GLOBALE»!!! 
 

domenica 15 settembre 2019

«UNA DELLE PAGINE PIÙ DRAMMATICHE DELLA "LUNGA E FEROCE PREDAZIONE IMPERIALISTA USA" SULL'AMERICA LATINA»!!!

Miguel Angel Asturias, Week-end in Guatemala, trad. it., Nuova Accademia Editrice 1964

Presentazione
«Apparso nel 1956, il libro scaturisce dalla profonda emozione determinata nell'autore da un ennesimo rivolgimento sanguinoso nel suo paese, l'intervento degli Stati Uniti e di mercenari delle vicine repubbliche centroamericane e antillane in favore del colonnello Carlos Castillo Armas, nel giugno 1954, contro il governo di Jacobo Arbenz, reo di aver intrapreso una vigorosa riforma agraria e la distribuzione delle terre ai contadini. Questa misura veniva a danneggiare le grosse compagnie statunitensi, che monopolizzavano la produzione agricola guatemalteca, e i proprietari di latifondi. L'intervento degli Stati Uniti fu decisivo, e Arbenz cadde. Asturias in quel momento era ambasciatore a Buenos Aires e rinunciò immediatamente all'incarico in segno di sdegnosa protesta. Fu l'emozione determinata in lui da questi avvenimenti a dettargli un libro irruente e denso di calda passione umana, come è Week-end in Guatemala, che egli dedicò significativamente agli studenti, ai contadini, ai lavoratori caduti, a tutto il suo popolo in lotta.
Più che un romanzo, Asturias ha voluto scrivere una storia viva del tragico momento attraversato dalla sua gente, rappresentandolo attraverso una serie di episodi che scavano profondamente nella realtà guatemalteca e che, tutti uniti, costituiscono una delle più dure proteste contro l'asservimento dell'uomo. Asturias insorge contro il gretto conservatorismo dei latifondisti, contro il concetto che essi hanno dell'uomo, dell'indio in particolare, trattato come schiavo o come bestia. Egli si scaglia contro l'intervento arbitrario di una grande potenza come gli Stati Uniti, che decide delle sorti di un popolo pacifico e indifeso. L'opportunismo, le ambizioni, la crudeltà, la disposizione al tradimento degli alti gradi dell'esercito, la coalizione della chiesa con i politici in difesa di egoistiche, ottuse e ibride posizioni - il che non significa in Asturias avversione alla religione, ché anzi egli mostra sempre il suo indio profondamente legato, in tutte le manifestazioni della vita, alle pratiche religiose -, tutto determina la protesta. Asturias dimostra come l'accusa di "comunismo" sia usata dalle oligarchie costituite quale arma artificiosa onde eliminare gli oppositori, quando questi perseguivano solamente la giustizia sociale, il diritto di vivere e di lavorare sulla terra.
Le pagine, più di una volta veementi, di questo libro, immettono violentemente nel dramma guatemalteco, che è dramma americano in senso più ampio. Gli avvenimenti, in particolare di questi ultimi anni, hanno chiaramente dimostrato gli errori della politica statunitense nei confronti dei popoli dell'America Latina, cui si è cercato in seguito di porre riparo. Il solco, tuttavia, è assai profondo e, in particolare nel Centro America, la democrazia e la libertà non sono che mascherature esterne, quando lo sono, di crudeli regimi dittatoriali, la cui ferula incide ancora sanguinosamente sui popoli. Le riforme attendono sempre di venire affrontate. Gli aiuti finanziari nordamericani si perdono nelle tasche dei governanti e degli approfittatori. L'America Latina acuisce, così, sempre più i suoi insoluti problemi.
Week-end in Guatemala si chiude con un messaggio di speranza. Nell'ultimo episodio del libro, Torotumbo, i tiranni sono distrutti e il popolo ascende alla conquista delle montagne che sono sue. Negli occhi degli uomini, dopo un manto di sudore di secoli, risplende la luce di un nuovo giorno. Asturias non poteva lasciare senza speranza la sua gente, ricaduta sotto l'oppressione. Il suo è, in definitiva, un atto di fede nel futuro tutto dell'umanità.»
(Dall'Intro di Giuseppe Bellini, pp. 14-17, sottol.re nostre)


LE PAROLE, NEL COMPLESSO FONDATE, DI Giovanni Bellini RISALGONO AL FEBBRAIO 1964, ANNO DELL'EDIZIONE ITALIANA DEL LIBRO DI ASTURIAS!... NOI PERÒ SAPPIAMO BENE CHE IN SEGUITO I "SANGUINOSI DRAMMI", PER L'INTERA AMERICA LATINA, SI SONO SOLO MOLTIPLICATI, A PARTIRE DAL GOLPE MILITARE IN BRASILE (PRIMO APRILE DI QUEL 1964!), CHE PORTÒ AL POTERE ASSOLUTO IL "REGIME DITTATORIALE DEI GORILLAS", DESTINATO A DURARE FINO AL 1985 (SÍ, OLTRE UN VENTENNIO)! DEL 1973 È POI IL GOLPE MILITARE IN CILE (CHE STRONCÒ BRUTALMENTE IL "MAGNIFICO SOGNO DI ALLENDE"!), E DEL 1976 QUELLO IN ARGENTINA (CON "MIGLIAIA DI DESAPARECIDOS"!), PER LIMITARCI A QUELLI PIÙ "TRAGICAMENTE FAMOSI"! E NOI SAPPIAMO BENE CHE A "FARE E DISFARE IN LOCO REGIMI PIÙ O MENO DITTATORIALI" È STATA SEMPRE, SOPRATTUTTO, LA "LONGA E VORACE MANO DELL'IMPERIALISMO USA", CHE HA SEMPRE TRATTATO IL SUBCONTINENTE AMERICANO COME IL "CORTILE DI CASA PROPRIA"! ERGO, I PRESUNTI "ERRORI DELLE POLITICHE STATUNITENSI CUI IN SEGUITO SI SAREBBE CERCATO DI PORRE RIPARO", NON ERANO AFFATTO TALI, BENSÍ PRELUDEVANO IN REALTÀ A "NUOVE FORME DI FEROCE PREDAZIONE PIANIFICATE FIN NEL DETTAGLIO", COME DIMOSTRA IL "«PRIMO ESPERIMENTO NEOLIBERISTA» ESPORTATO IN CILE (CON L'IMMANCABILE "SUPPORTO CIA"!) PROPRIO IN COINCIDENZA DEL COLPO DI STATO DEL 1973"!... E SI TRATTAVA FRA L'ALTRO, GUARDA CASO, DELLE "FAMIGERATE «RIFORME ECONOMICHE STRUTTURALI» BENEDETTE DALLA BANCA MONDIALE E DAL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE", PERALTRO SOGGETTE A "VERE E PROPRIE CONDIZIONI CAPESTRO PER POTER RICEVERE, A CARISSIMO PREZZO, I «SEDICENTI AIUTI E/O INVESTIMENTI FINANZIARI DALL'ESTERO»"!!!
TUTTO QUESTO, AGGIUNTO ALLE «IMMANCABILI, SPIETATE SANZIONI ECONOMICO-COMMERCIALI DA APPLICARE AI "PAESI RECALCITRANTI O NON ALLINEATI", HA CERTO UN NOME APPARENTEMENTE PIÙ MORBIDO DI «IMPERIALISMO», MA LA SUA "SOSTANZA LACRIME E SANGUE" NON CAMBIA: SI CHIAMA «NEOCOLONIALISMO» (L'AFRICA "POST INDIPENDENTISTA" NE SA QUALCOSA!), ED OGGI TORNA ALLA RIBALTA DELLE CRONACHE INTERNAZIONALI CON I TORMENTATI CASI, CERTO "IDEOLOGICAMENTE OPPOSTI", DI "MADURO IN VENEZUELA" E DI "BOLSONARO ("AMAZZONIA TRISTE"!) IN BRASILE"!!!

domenica 1 settembre 2019

UN SAGGIO (PIÙ ATTUALE CHE MAI!) DEL GRANDE SAMIR AMIN!!!

Samir Amin, I Mandarini del Capitale Globale
trad. it., DATANEWS, Roma 1994

Presentazione
«Pubblicato nell'ambito della campagna internazionale "Cinquant'anni bastano!", sul cinquantesimo anniversario della nascita a Bretton Woods della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, il libro analizza gli scenari di crisi e insieme di transizione del capitalismo reale come sistema mondiale.
La crescente mondializzazione dell'economia e la mancanza di una corrispondente mondializzazione della politica determinano la completa ingovernabilità dei processi economici. L'unico attore veramente globale diviene il capitale e i suoi mandarini (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, G7) che governano la crisi attuale con l'unico obiettivo del massimo profitto. Finanziarizzazione dell'economia, disoccupazione, crescente divario Nord-Sud, devastazione ambientale, impoverimento del Terzo Mondo, ne sono le conseguenze.
È possibile una riforma delle istituzioni economiche internazionali? Oppure esse vanno radicalmente superate da una politica alternativa su scala mondiale che si pone come obiettivo ineludibile il socialismo?»

DAL BREVE QUANTO DENSISSIMO TESTO DI AMIN, FONDAMENTALE ALL'EPOCA, È PASSATO UN QUARTO DI SECOLO, E COME BEN SAPPIAMO C'È STATA SÍ UNA "RISPOSTA" ALLE SUE CRUCIALI DOMANDE, MA È STATA PURTROPPO DI TUTT'ALTRO SEGNO RISPETTO A QUELLE DA LUI AUSPICATE (E "PROGETTATE IN ALTERNATIVA"!), RIASSUMIBILI NEL LUMINOSO DISTICO: «SOCIALISMO O BARBARIE»! LE "RISPOSTE ALLA CRISI DELL'EPOCA" LE HANNO "OFFERTE/IMPOSTE DALL'ALTO, IN UNA TREMENDA CONTROFFENSIVA", PROPRIO IL «CAPITALE GLOBALE E I SUOI MANDARINI»: «NEOLIBERISMO SELVAGGIO», È STATO IL SUO NOME E IL SUO "AGIRE", E A PAGARNE L'ALTISSIMO PREZZO SONO STATI ANCORA UNA VOLTA «INDIVIDUI, CLASSI, POPOLAZIONI E AMBIENTI IN OGNI PARTE DEL MONDO»!!!
EPPURE, LE QUESTIONI SOLLEVATE CON PROFONDO ACUME DA AMIN SONO ANCORA TUTTE QUI, DINANZI A NOI, SUL TAPPETO, E CE NE OFFRE UN SAGGIO LO STESSO AUTORE IN UN PASSAGGIO ILLUMINANTE, PROFETICO E PIÙ CHE MAI "ATTUALE": "Una congiuntura così particolare invita a tornare sulla questione delle tendenze spontanee nella gestione del capitale. È in questa prospettiva che ho messo l'accento su quelli che io chiamo i «cinque monopoli» (monopolio del mercato finanziario di capitali; delle nuove tecnologie; delle armi di distruzione di massa; dei sistemi comunicativi globali; dell'accesso alle risorse naturali del pianeta - NdR) attraverso i quali il dominio dei centri sulle periferie potrebbe svilupparsi nell'avvenire prossimo (cfr. La nouvelle polarisation mondiale)." Ivi, p. 28