Il Diavolo è un ottimista se pensa
di poter peggiorare gli uomini.
Karl Kraus



Par. 1) Antisionismo e antisemitismo, sono davvero assimilabili?

      Qualche tempo fa è accaduto che un gruppo di fascistelli di infingarda e intollerabile ignoranza abbia esternato pensieri antisemitici veramente gravi. Lei Presidente Napolitano, puntuale come era necessario, alla prima uscita pubblica ha espresso la giusta e ferma indignazione verso questi atteggiamenti. Grazie signor Presidente. Ma tant'è, ormai la legge contro l'apologia di fascismo esiste (?) soltanto sulla carta, stadi e licei sono pieni di fascistelli arroganti e non abbiamo neppure una legge contro il razzismo, l'omofobia e l'uso della tortura. Così orde di tassinari festeggiano col saluto romano l'elezione di Alemanno a sindaco di Roma, episodi raccapriccianti vedono protagonisti/carnefici agenti di pubblica sicurezza nelle strade (uno per tutti: la tragica fine del giovane Federico Aldrovandi), nelle carceri e persino nelle questure, sindaci del Nord Est blaterano indecenti insulti razzisti contro gli immigrati, nei Cie ragazzi, donne e uomini sono reclusi (al pari che nelle carceri) in condizioni vergognosamente lesive dei più elementari diritti umani e civili (cibo scarso e cattivo, igiene pressoché inesistente, abusi di ansiolitici prescritti indebitamente…), fuori dei Cie proliferano allucinanti accampamenti "di fortuna", come quella vera e propria "fangaia" nei pressi della stazione Ostiense in cui sono "vissuti" per anni, in un indicibile degrado, gruppi di ragazzi afghani fuggiti bambini dal loro Paese in fiamme. Del resto, perché allarmarsi: non era forse già accaduto che il nostro "democratico" Parlamento avesse promulgato (e Lei, signor Presidente, senza batter ciglio avesse ratificato) la legge per il respingimento in mare dei profughi provenienti dalla Libia, contribuendo a trasformare il Mediterraneo in una tomba per migliaia e migliaia di poveri infelici, "colpevoli" solo di aver osato cercare un destino meno gramo? E c'è forse ancora qualcuno che si chieda senza retorica cosa sia rimasto in questo Paese dello "spirito fondante" delle nostre istituzioni democratiche, lo spirito di quella Resistenza che, saldando un ritrovato slancio ideale ad un mai domo senso della giustizia, con un inestimabile sacrificio di sangue aveva saputo liberarsi in un unico movimento dell'occupazione nazista e del fascismo?
      Ebbene, signor Presidente, concludendo la sua apprezzabile, sacrosanta rampogna di cui sopra, Lei ha usato le testuali parole: «… oggi l'antisionismo e l'antisemitismo sono aberrazioni mentali». Non nutriamo dubbi (anche se vorremmo tanto essere smentiti) circa il fatto che molte brave persone la pensino esattamente come Lei. Noi invece ci siamo domandati e ci permettiamo di domandarLe: ma come è possibile mettere uno accanto all'altro, peraltro così disinvoltamente, antisionismo e antisemitismo, quasi fossero termini e concetti equivalenti, di eguale segno storico, politico, etico? 
Come e dove, signor Presidente, ci siamo, ci hanno informato su cosa è il sionismo oggi? Quante persone sono realmente (e non intendiamo 'pienamente', bensì 'sufficientemente') a conoscenza di quando e come è nato il sionismo e di ciò che esso ha prodotto in terra di Palestina fino ad oggi, ossia di quali sono stati e sono i suoi progetti e programmi e di come li ha messi in atto nel passato e continua a metterli in atto nel presente? Inoltre, per quanto i "fatti" siano ormai sotto gli occhi di tutti grazie alla odierna 'capillarità' della cosiddetta "copertura mediatica", siamo così sicuri che le varie "interpretazioni dei fatti" (qualcuno ci ha insegnato tempo fa, e una volta per tutte, che «non esistono fatti senza interpretazioni»!) riescano a comporre un "quadro informativo" il più 'obiettivo' possibile? Non entra forse ogni volta in gioco, mai come in rapporto alla questione del sionismo e del conseguente (è la nostra petizione di principio!), incessante conflitto israelo-palestinese, un elemento la cui portata evocativa e simbolica è talmente enorme, incommensurabile, da costituire un vero e proprio 'altare' sul quale financo la 'ricerca di una potenziale obiettività' può essere tranquillamente sacrificata? Che paradosso: il mondo occidentale, nel suo complesso, non era poi così "informato" all'epoca in cui i nazisti pianificarono quella Soluzione Finale che avrebbe portato allo sterminio di milioni di ebrei (insieme, va sempre ricordato, a migliaia e migliaia di 'zingari', disabili, omosessuali, comunisti e altri oppositori politici), eppure ciò non gli ha impedito, una volta preso atto dell'indicibile orrore dei lager e dei forni crematori, di sviluppare (e pour cause!) un profondo senso di colpa, che si è rapidamente diffuso in ogni dove e dura a tutt'oggi. In particolare l'intera Europa, per quanto oscuramente, sembrava improvvisamente maturare la consapevolezza che la mala pianta dell'antisemitismo, una volta incubata nei meandri della propria storia, avesse preso più o meno sotterraneamente ad incistarsi e a proliferare, fino ad esplodere non solo in forme di una mostruosità inconcepibile, ma al centro di uno dei cuori pulsanti della propria civiltà, in quella Germania che, oltre ad aver donato al mondo geni come Goethe, Beethoven, Schliemann, portatori di un 'umanesimo' davvero universale, era giunta ad essere una società nella quale gli ebrei - ottimamente insediati in essa a tutti i livelli - si sentivano realmente 'a casa'! Giusto allora bollare l'antisemitismo, in ogni sua manifestazione, come un'aberrazione mentale, giusto predisporre gli anticorpi culturali, politico-ideologici e legali affinché una simile aberrazione venga stroncata sul nascere, giusto concepire e portare avanti simboliche e materiali forme 'risarcitorie' (ancorché insufficienti rispetto all'immane tragedia) nei confronti di quel popolo 'disperso' che a causa di essa è rimasto vittima di ogni violenza, fino alla più estrema. Giusto quindi, e lo diciamo per inciso, che la 'comunità internazionale' abbia concentrato ogni energia nello sforzo di dotare gli ebrei di una propria terra e di un proprio Stato, in cui essi potessero sentirsi finalmente al sicuro, per sempre al riparo da pregiudizi e persecuzioni! 


Par. 2) Theodor Herzl e il movimento sionista

      Chissà, se fosse stato ancora vivo (era deceduto nel 1904), come si sarebbe sentito Theodor Herzl, oggi unanimemente ritenuto il fondatore del sionismo, all'indomani di quel 14 maggio 1948 in cui terminava il mandato britannico sulla Palestina e l'Agenzia Ebraica dichiarava immediatamente l'indipendenza, e con ciò la nascita ufficiale, dello Stato d'Israele: da un lato, siamo sicuri che ne avrebbe gioito, vedendo probabilmente nell'evento il giusto coronamento del suo personale, efficacissimo impegno teorico e pratico-politico; dall'altro lato, però, fino a che punto egli avrebbe gioito, visto che in quello stesso giorno il neonato Stato veniva apertamente attaccato dalla Siria, dall'Egitto, dall'Iraq, ai quali si sarebbe aggiunta in seguito la Giordania? Ma soprattutto: sarebbe rimasto sorpreso da cotanta manifestazione di ostile aggressività da parte del mondo arabo, lui che, dopo aver pubblicato il brillante e fortunato saggio Lo stato ebraico (1896), volendo istituire il sionismo come movimento permanente aveva creato l'Organizzazione Sionista (dal 1960 Mondiale, fu il massimo organismo politico ebraico fino alla istituzione dello Stato d'Israele), nonché organizzato il primo Congresso Sionista Mondiale (Basilea, 29-31 agosto 1897)? Naturalmente, non possiamo avere risposte a queste domande; tuttavia, possiamo ricordare che tale fondativo congresso si era concluso con l'approvazione di un programma il quale affermava la scelta politica dell'Organizzazione Sionista di insediarsi nella Terra Promessa: «Il sionismo persegue per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita». È qui la chiave, a nostro avviso, per comprendere appieno sia la natura e le finalità del movimento sionista, sia le gravi contraddizioni nelle quali esso era destinato a involversi; è a partire di qui, infatti, che si innescano quei tumultuosi processi geo-politici che sarebbero culminati nella trasformazione della Palestina, e più in generale del Medio Oriente, nella zona più calda del pianeta!
      Ci sia consentito ripercorrere, per quanto schematicamente e in estrema sintesi, alcuni momenti salienti di questa tragica storia, non certo pro domo Sua, signor Presidente, che oltre ad essere un eminente politico, è anche un uomo di grande cultura, bensì a vantaggio di quei lettori 'comuni' che vorranno accostarsi a questa lettera aperta. Tuttavia, intendiamo farlo non vestendo panni para-accademici, bensì provando a calarci in quelli (ne converrà) infinitamente più scomodi di un palestinese qualunque, uno che ha vissuto tale storia sulla propria pelle. Per comodità, lo chiameremo familiarmente lui. E intanto, un certo sconcerto lui deve averlo provato dinanzi alle varie, massicce ondate migratorie ebraiche verso la sua terra (pur sempre sua, anche se nel periodo in oggetto dapprima occupata dagli ottomani, quindi dai britannici), susseguitesi in pratica ininterrottamente tra la fine del XIX e la metà del XX secolo; in particolare: quelle causate, in Russia, prima dai pogrom degli anni 1881-1882 e 1903-1906 (in questo secondo caso provocati dalla pubblicazione dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion, falso documento segreto ebraico e vero libello antisemita prodotto dall'Ochrana, la polizia segreta zarista), poi dagli sconvolgimenti della rivoluzione bolscevica e della guerra civile; quelle determinate, soprattutto in Germania e nell'Europa orientale, dalle feroci persecuzioni naziste; quelle, infine, verificatesi subito dopo l'indipendenza dello Stato Ebraico, con l'afflusso dei sopravvissuti alla Shoah (1948-1951). Da rilevare - ci sembra - che già all'epoca della seconda migrazione (1904-1914) lui non possa che 'prendere atto' di (almeno) un paio di fattori 'stranianti': 1) con i fondi sionisti, e principalmente del Fondo nazionale ebraico, si acquistano terre dichiarate inalienabili da cui è esclusa la manodopera indigena, e si costituiscono insediamenti ed un'economia chiusa da cui gli arabi sono esclusi; 2) i chaluzim, i "pionieri" dell'esodo sionista, non portano con sé solo la loro forza lavoro, la loro famiglia, la loro cultura, ma anche l'idea europea di "Nazione".
      Ora, nel corso dei secoli, c'è sempre stata una corrente migratoria ebraica verso la Palestina (in particolare a Gerusalemme, la città santa della religione ebraica, dove peraltro è quasi sempre esistita una minoranza ebraica), motivata essenzialmente da questioni religiose. L'immigrazione sionista di natura laica è, invece, una conseguenza molto più tarda dell'emancipazione degli ebrei europei nel corso della rivoluzione francese e per tutto il XIX secolo fino alla rivoluzione russa, e delle reazioni ostili alla conseguente tendenza degli ebrei all'assimilazione nelle varie società nazionali. L’idea di creare uno Stato propriamente ebraico dove l’antisemitismo sia assente per definizione, idea espressa in vari movimenti e manifesti ideologici, prende a circolare dal 1880; circa la sua ubicazione, si pensa alle località più disparate sparse per il mondo, anche se l’opzione di gran lunga più popolare (che prevarrà nel 1905 e vincerà definitivamente dopo il 1917) resta la terra di Sion (il monte che vide il primitivo nucleo della città di Gerusalemme), la Palestina, appunto. Le elaborazioni e l’attivismo di Herzl si inseriscono in realtà in un movimento migratorio ebraico già in atto, e, in qualche modo, già orientato! Ma non è tutto. Non avendo ottenuto il sostegno ufficiale dell'Impero Ottomano, fino al 1917 l'Organizzazione Sionista, mediante varie istituzioni, persegue l'obiettivo della costruzione di una patria attraverso una strategia di immigrazione (aliyah:”ascesa” in ebraico) continua su piccola scala.

        Lo sconcerto del nostro lui deve aver cominciato a mutarsi in aperta rabbia il 2 novembre del 1917, quando, nell’imminenza della vittoria sull’Impero Ottomano, il Regno Unito si impegna a mettere a disposizione del movimento sionista dei territori in Palestina per costituire un focolare nazionale (Dichiarazione di Balfour). Ma la sua rabbia è destinata ad aumentare nel 1922, quando, chiesto e ottenuto un Mandato sulla Palestina (che includeva anche l’odierna Giordania), l’Impero Britannico ribadisce e precisa il suo impegno; e nel 1923, quando in conformità con l'articolo 4 del Mandato stesso, e dopo l'assenso del Congresso Sionista, la comunità ebraica in Palestina (Yishuv) costituisce l’Agenzia Ebraica come organo di autogoverno (mentre i notabili arabi palestinesi rifiutano la proposta britannica di creare un'equivalente Agenzia Araba!), organo di autogoverno che nel 1929 viene riconosciuto dai britannici ricevendo poteri para-statali (gestione di scuole, ospedali, infrastrutture, eccetera). E guarda caso, se le prime proteste arabe relative all'immigrazione ebraica si registrano verso la fine del XIX secolo, e i primi scontri fra le due comunità si hanno solo negli anni ’20 - a Gerusalemme (1920) e a Giaffa (1921) -, è fra il 1929 e il 1939 che gli scontri si fanno vasti e sanguinosi - i moti del 1929 e la cosiddetta "Grande Rivolta" del triennio 1936-1939 –, e vengono sedati duramente dall'esercito britannico, con alto numero di vittime da entrambi le parti.
      Nel 1939 i britannici, dopo aver proposto inutilmente diversi piani di divisione del territorio mandatario in due stati distinti, emettono una legge, il Libro Bianco, con cui tentano di porre un limite all'immigrazione ebraica, ma questa, con la Seconda Guerra Mondiale, aumenta vertiginosamente. È una fase in cui mentre le organizzazioni ebraiche più moderate, come l'Haganah di David Ben Gurion, si limitano agli scontri con gli arabi, quelle estremistiche arrivano ad aggredire apertamente i britannici, militari e civili. Fra queste ultime si distinguono l'Irgun di Menachem Begin (suo il clamoroso attentato dinamitardo del luglio 1946 all'hotel "King David" di Gerusalemme - un centinaio di vittime -, contro la segreteria di governo e i comandi militari inglesi) e la Banda Stern, descritte dai britannici come organizzazioni terroristiche. Nel maggio 1947 il Regno Unito annuncia il disimpegno dal mandato sulla Palestina e il suo abbandono entro un anno. A questo punto gli eventi si concentrano e precipitano. Il 15 maggio 1947 viene costituito l'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) che il 3 settembre raccomanda a maggioranza la divisione della Palestina occidentale (quella orientale aveva già formato lo Stato arabo di Giordania) in due stati di simile estensione, uno a maggioranza ebraica e l'altro a maggioranza araba, mentre Gerusalemme sarebbe diventata una città internazionale (Corpus separatum) controllata dall'ONU
      
 Par. 3) al-Nakba, la catastrofe per la Palestina e i palestinesi
        Il 29 novembre 1947 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota (33 sì, 10 no, 13 astenuti) la risoluzione 181, contenente la divisione della Palestina. Le principali organizzazioni ebraiche accettano la proposta (rifiuti provengono solo dai gruppi più estremisti che puntano alla costituzione della Grande Israele, comprendente tutto il territorio mandatario e parte delle nazioni confinanti) mentre la popolazione festeggia nelle strade la notizia. Invece la popolazione araba e i Paesi arabi circostanti la rifiutano, per ragioni di principio religiose (sia islamiche che cristiane) e politiche, oltre che per ragioni pratiche (tra le principali critiche da parte araba il fatto che agli ebrei, solo un terzo della popolazione, sia assegnato il 56% del territorio, che questo comprenda le principali fonti idriche della regione e che lo stato arabo non abbia sbocchi sul Mar Rosso). Gli arabi chiedono uno stato unico, con il rientro in Europa di tutti gli ebrei immigrati negli ultimi decenni. Le nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla creazione di uno stato ebraico, fanno ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo la non competenza dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso viene respinto. Dopo alcuni mesi di scontri interni alla popolazione e di scaramucce sui confini con i Paesi arabi, siamo al fatidico 14 maggio 1948, e Israele autoproclama la propria esistenza: il mondo arabo gli dichiara guerra e lui, ormai disperato e inferocito, fa la guerra!
       Le forze ebraiche, che inizialmente conoscono gravi difficoltà nell'equipaggiarsi ma che sono meglio organizzate e ricevono continui rinforzi provenienti dall'immigrazione nuovamente possibile, vincono la guerra, che si conclude con una sequenza di armistizi, ma nessun trattato di pace. In seguito alla guerra, Israele conquista un territorio più ampio di quello promesso dalle Nazioni Unite, mentre la Giordania occupa la palestinese Cisgiordania, e l'Egitto la Striscia di Gaza, parimenti palestinese; Gerusalemme resta divisa tra Israeliani e Giordani. Questo assetto territoriale rimarrà intatto fino al 1967. Lo Stato di Israele viene riconosciuto dalle Nazioni Unite (grandi potenze in testa, ovviamente: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina, Gran Bretagna, Francia) e da buona parte del mondo, ma non dai Paesi arabi nella loro totalità (che rinunciano quindi a costituire lo stato arabo in Cisgiordaniae Gaza). Nel settembre 1948 il conte Folke Bernadotte, incaricato dalle Nazioni Unite e attivo per il ritorno dei profughi palestinesinelle loro case, viene assassinato dal gruppo Lehi (Banda Stern); Israele arresta alcuni appartenenti alla banda, ma li rilascia subito! Nel mondo arabo, e in buona parte del mondo islamico, la creazione di Israele viene vista come un atto di aggressione contro il mondo arabo, il furto di un territorio e un atto di spossessamento nei confronti dei Palestinesi. Nel 1949 la Lega Araba approva due risoluzioni: nella prima si vieta ai governi di tutti gli Stati membri di concedere la cittadinanza ai profughi palestinesi, nella seconda si ordina loro di facilitare l'espulsione degli ebrei dalle proprie terre. Nel 1950 lo Stato di Israele riconosce con la Legge del ritorno il diritto di qualsiasi ebreo del mondo di immigrare in Israele, semplicemente richiedendolo, e di ricevere la cittadinanza non appena arrivato. A questo punto, il nostro lui, posto che sia ancora vivo, è disperato, amareggiato, frustrato. Non sa che il peggio, specie per i suoi figli, nipoti e pronipoti, è ancora di là da venire!
        Rispetto a quanto sin qui visto, si potrebbero già sollevare numerose ‘istanze critiche’, come in effetti hanno fatto via via sia gli osservatori che gli analisti e gli storici più accorti. Qui ci limitiamo, per ragioni di spazio, a rilevare quanto segue: se dall’imperialismo britannico c’era ben poco da aspettarsi circa il rispetto dei diritti dei Palestinesi a casa loro, sarebbe stato invece del tutto lecito pretenderlo da parte della ‘comunità internazionale’ e dell’ONU! Ma tant’è. Il 23º Congresso Sionista (1951), il primo dopo l'indipendenza, per la prima volta tenutosi non in Europa ma a Gerusalemme (e non a caso apertosi simbolicamente davanti alla tomba di Herzl, appena traslata, secondo il suo testamento, da Vienna) ponendosi in continuità con il "programma di Basilea", ormai realizzato, ridefinisce i compiti del movimento sionista: «consolidamento dello Stato di Israele, riunione degli esiliati in Terra di Israele, tutela dell'unità del Popolo Ebraico». Ora, considerando che la Terra di Israele non può essere altro che una parte di quella Terra di Palestina da secoli ormai abitata da un altro popolo, e che tale Terra di Palestina, al pari di ogni altra al mondo, è inevitabilmente limitata nella propria estensione e nelle proprie risorse, non era forse il caso che il programma sionista si aprisse ora alle trattative più distensive possibili con i conterranei, magari cominciando col chiedere loro scusa per ciò che essi avevano appena vissuto/subìto come una vera e propria catastrofe (in arabo al-Nakba)? Neanche per sogno! Sull’onda dei freschi successi politico-militari, la leadership israeliana (generalmente promossa per meriti conseguiti direttamente sui campi di battaglia), sotto l’ala protettiva dei gendarmi del mondo, gli Stati Uniti, non ha trovato di meglio che gonfiare ulteriormente i muscoli e armarsi fino ai denti, presto entrando persino nel club esclusivo delle potenze nucleari (un capitolo, questo, che meriterebbe un volume a parte)! Come noto, da allora in tutta l’area mediorentale i conflitti, dalle scaramucce ai raid, dai kamikaze alle rappresaglie, dai blocchi navali alle guerre aperte (a tacere delle innumerevoli operazioni condotte da uno dei servizi segreti più efficienti del mondo: il Mossad), non si contano più, e a pagarne il prezzo più alto è stato ed è un intero popolo, che a sua volta si ritrova, paradossalmente, o ‘coatto’ o ‘disperso’.


Par. 4) Colonizzazione incessante e sistematico sterminio

     Ebbene, Presidente Napolitano, ci sembra inutile girarci attorno: se questi sono oggettivamente i (pessimi) frutti, il seme che li ha generati è oggettivamente l’ideologia sionista, e la pianta che li ha alimentati, ormai purtroppo ben radicata in Terra di Palestina, è oggettivamente il movimento sionista, un movimento nazionalistico estremista (per non dire ‘fanatico’) e razzista (incredibile, nevvero?) che ha via via mutato la propria ferma (e fino a un certo punto legittima) determinazione in feroce protervia. E che tale nazionalismo razzista abbia agito fin dal 1948 assumendo e praticando le sue forme più odiose e aberranti, ossia la colonizzazione e la pulizia etnica nei confronti dei Palestinesi, è attestato soprattutto dalle strazianti testimonianze delle vittime, tramandatesi di generazione in generazione e giunte così fino a noi. Villaggi e villaggi, sulle colline più lussureggianti, tra i frutteti, gli uliveti, i vigneti più ricchi, furono sgomberati a mano armata dall’esercito israeliano: le case più belle conservate, le più povere bruciate. Poca e vana la resistenza di ‘fucilotti’ di campagna contro mezzi corazzati e un’armata ben organizzata e particolarmente crudele. Gli autoctoni furono incanalati in lunghe file – «lasciate tutto!» -, nemmeno un asino per portare un fagotto di stracci e coperte, nemmeno una capra per il latte dei bambini. «Il giorno dopo cercarono di tornare alle loro case, ma i fucili puntati contro le schiene glielo impedirono. Per tre giorni e due notti camminarono su e giù per le colline impietose sotto il bagliore accecante del sole e lo sguardo invisibile ma infallibile dei cecchini. Un bambino e sua nonna caddero per terra e morirono. Una donna abortì, i corpi disidratati di due bambini si afflosciarono tra le braccia delle madri. Riuscirono a raggiungere Jenin, riposando dovunque trovavano spazio nell’ondata di profughi che confluivano dagli altri paesi (…) quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo. Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico». (Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 49-51. Stranamente, questo (nonostante tutto!) splendido volume era stato già pubblicato nel 2006 con il titolo, ben più cogente, Nel segno di David: un caso di censura a posteriori?).
        Ma il peggio, come si accennava, comincia ora. Per Israele, la terra sarà dura da arare, e coloro che la abitano da sempre, i palestinesi non ebrei, saranno come pesanti sassi, difficili da gettare lontano! Ai confini della Cisgiordania e del Libano, sorgono affollati campi profughi, che l’esercito sionista circonda subito con minacciose torrette di controllo e snervanti check-point, e sottopone a continui black-out. All’interno, tutti umiliati, increduli, storditi, a contare i propri lutti; e quanti anziani vi sarebbero poi morti, «lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri» (Susan Abulhawa, op. cit., p. 51). A poco a poco le tende pietosamente inviate da Siria e Giordania si trasformano in casupole con pareti di mattoni e fango e tetti in lamiera (tra l’una e l’altra vicoli strettissimi e fogne a cielo aperto); si tirano su anche piccole scuole, per sottrarre il più possibile i bambini al degrado e all’abbrutimento. In ogni campo vengono mandati osservatori dell’ONU, che però dinanzi alle angherie e ai soprusi dell’esercito sionista sono totalmente impotenti, limitandosi così a prendere atto della situazione. Intere generazioni di giovani, deprivate del proprio futuro, crescono in una rabbia incontenibile che presto prende fuoco, trasformandosi in odio e follia. Dapprima rivolte e attentati, in seguito autobombe, razzi, cinture esplosive: martirio e omicidio mescolano il sangue di oppressi e oppressori. Sul fronte esterno, Israele combatte una sequela micidiale e interminabile di guerre ‘aperte’: da quella di Suez (1956), a quella dei Sei giorni (1967), da quella dello Yom Kippur (1973) alle tre (secondo Israele due) col Libano: per la precisione, due invasioni (1978: Operazione Litani; 1982: una campagna che doveva risolversi in 72 ore, ma sarebbe invece durata tre anni! Il Libano, peraltro, era già dilaniato dalla guerra civile [1975-1990]) e un devastante bombardamento aereo (accompagnato da pesanti cannoneggiamenti) [2006]. All’interno di questi conflitti, nonché fra l’uno e l’altro – tanto per non perdere tempo e non farsi mancare nulla – spiccano alcuni episodi che si distinguono da un lato per la loro belluina atrocità, dall’altro per le loro gravissime ripercussioni sul piano strettamente politico.
        Il 18 settembre 1982, a Beirut, i falangisti dell’alleato libanese degli israeliani, Saad Haddad, compiono un’orribile strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila: duemila morti, in prevalenza donne e bambini. L’anno dopo il Rapporto della Commissione governativa d’inchiesta israeliana accusa l’ex ministro della Difesa Ariel Sharon di avere avuto dirette responsabilità nei massacri: Sharon sarà primo ministro di Israele dal 2001 al 2006. In questa stessa guerra, i cui scopi dichiarati sono per Israele l’autodifesa, la pace e il rovesciamento dell’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina fondata da Yasser Arafat nel 1964, rifugiatasi in Libano), il Paese dei Cedri viene messo a ferro e fuoco; alla lettera:«Nel suo epico memoriale, Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra, il corrispondente britannico Robert Fisk descriveva così le bombe al fosforo israeliane: “la storia della dottoressa Shamma’a era agghiacciante e me la raccontò con una voce spezzata: ‘Ho dovuto prendere i bambini e infilarli dentro a dei secchi d’acqua per spegnere le fiamme’ disse. ‘Quando li ho tirati fuori, mezz’ora dopo, bruciavano ancora. Anche nella camera mortuaria, hanno continuato a bruciare senza fiamme per ore’. La mattina dopo, Amal Shamma’a portò quei corpicini fuori dall’obitorio per seppellirli. Con suo grande orrore, li vide divampare di nuovo”» (Susan Abulhawa, op. cit., p.263, cors. ns.).
         Nel 1988, nei territori palestinesi scoppia l’Intifada (sciopero generale e lancio di pietre; ne seguirà una seconda nel 1990, poi molte altre), e l’esercito sionista la reprime con una ferocia inaudita: fra le vittime, innumerevoli sono i bambini, che vengono non solo arrestati e brutalmente torturati, ma spesso anche assassinati in piazza dai tiratori scelti delle unità speciali (Cfr. Susan Abulhawa, op.cit, pp. 298-300).
Nel 1993 i laburisti vincono le elezioni in Israele: primo ministro è Yitzhak Rabin, il quale promuove un’intesa di principio con l’OLP di Arafat per il riconoscimento reciproco, la pace con i Palestinesi e l’autonomia di Gaza e Gerico (Accordi di Oslo). Nel 1995, poco dopo aver fissato con Arafat (a Washington) le tappe per l’elezione di un Consiglio legislativo Palestinese e per il ritiro israeliano dai principali centri della Cisgiordania, Rabin viene assassinato a Tel Aviv da Ygal Amir, un estremista della destra ebraica.
         Nel 1996 alle elezioni israeliane vince la destra (il Likud), e viene eletto primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale sembra proseguire nella strada degli accordi con Arafat; stavolta a farli saltare (per la precisione l’anno dopo) ci pensano bene gli estremisti palestinesi di Hamas e i coloni israeliani, con una serie di attentati e contro attentati a Gerusalemme e in Cisgiordania.
        Tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009 l’esercito sionista intraprende l’operazione “Piombo Fuso”, bombardando ed entrando via terra in quella che è una delle prigioni a cielo aperto più popolose del mondo: la Striscia di Gaza. L’operazione costa la vita a quasi 1400 palestinesi e porta con sé la distruzione e il danneggiamento di abitazioni, infrastrutture e proprietà, come messo in luce dalle Nazioni Unite nel Rapporto Goldstone. A oggi l’intera Striscia resta sotto assedio e, nel quadro del regime israeliano di restrizioni al transito di beni di ogni genere da e verso l’area, non vi vengono fatti entrare materiali per la ricostruzione post-attacco (Cfr. Ilan Pappé, Israele/Palestina. La retorica della coesistenza, nottetempo, Roma 2011, nota 3, p. 34).
Nel maggio del 2010 la Freedom Flotilla, una flottiglia di navi che trasporta attivisti internazionali, aiuti umanitari e calcestruzzo per la ricostruzione di Gaza, tenta di rompere l’assedio della Striscia in una chiara azione di solidarietà. Risultato: commandos delle forze speciali dell’esercito israeliano attaccano in acque internazionali una delle navi, la Mavi Marmara, uccidendo nove attivisti e ferendo altre decine di persone (Cfr. ivi, nota 3, pp. 34-35).
        Resta da segnalare un dato forse meno eclatante, ma non certo meno pervasivo e violento, che percorre come un filo rosso l’intera parabola del sionismo in Terra di Palestina: la costruzione di colonie in Cisgiordania - denominata, per sottolineare il diritto di Israele sulle terre bibliche, Giudea e Samaria - su terra confiscata ai palestinesi. È un processo avviatosi dopo la guerra dei Sei giorni, e mai cessato. Tali colonie, inaccessibili alla maggioranza dei palestinesi (fanno eccezione coloro che sono ammessi a lavorarvi, secondo fonti filo-palestinesi in condizioni molto peggiori di quelle di lavoratori israeliani di pari livello), hanno attirato condanne da parte dei Palestinesi e da quasi tutto il mondo. Chi ieri si opponeva alla creazione delle colonie paragonava spesso la situazione a quella dell'apartheid sudafricano: fra questi vanno ricordati l'arcivescovo Desmond Tutu, l'inviato ONU per i diritti umani John Dugard - che considerava lo stato delle cose ancora peggiore -, l'ex presidente statunitense Jimmy Carter; oggi tale giudizio è condiviso anche da quelle organizzazioni israeliane che lottano per i diritti umani e conoscono la situazione sul terreno, come B'Tselem. Attualmente in Cisgiordania e altri Territori Occupati abitano più di 450.000 coloni ebraici. Alcuni di loro sono motivati dalla credenza religiosa che l'intera Terra di Israele sia stata promessa da Dio agli ebrei e che cederne anche solo un pezzo costituisca un peccato (altri invece sono mossi da considerazioni più pragmatiche, ad esempio il minor costo della vita, dal momento che le colonie ricevono ingenti finanziamenti statali). 
      Lo scottante fenomeno ha destato forti critiche anche in una parte dell’intellighenzia israeliana, ed è stato descritto come una cattiva interpretazione della religione ebraica. Così, nel 1992, si esprimeva Yeshayahou Leibowitz, eminente filosofo, polemista e scienziato israeliano (1903-1994), intervistato da Eyal Sivan: «... Lo Stato di Israele è fondato su un valore, e questo valore è il mantenimento del potere ebraico violento su tutta la terra di Israele e sull'altro popolo che vive in questa terra. È il contenuto del valore dello stato di Israele, oggi. È per questo che ha appena versato due miliardi e mezzo ai coloni installati nel Territori, mentre non ha denaro per gli immigrati recenti.... Quello che considera un valore è mantenere il potere sui Territori occupati. Non vi è denaro per migliorare il sistema scolastico. Non vi è denaro per migliorare il sistema sanitario... ma vi è denaro per gli assassini che si installano nei Territori. Molto denaro: due miliardi e mezzo, l'anno scorso. In nome di questo valore, si sacrifica la salute, l'istruzione, l'integrare gli immigranti. Si sacrifica tutto questo per mantenere il nostro potere sui Territori Occupati. - Chiama assassini i coloni? Sì, certamente» (cfr. Y. Leibowitz, L'exigence d'être héroique s'appelle l'incitation à la révolte, in De L'autre côté, Printemps 2007, n° 3, éditions La fabrique). Si consideri, in sovrappiù, che ancor oggi l'immigrazione sionista in Israele è incoraggiata e continua, anche se i flussi più rilevanti si sono avuti in seguito all'espulsione degli ebrei dai Paesi arabi (anni '50 e '60) e all’indomani del crollo del sistema sovietico in Europa Orientale (1990-1991; circa un milione di persone nel decennio). Israele ha sempre negato, invece, il ritorno ai profughi arabi palestinesi, sia agli 800.000 della guerra del 1948 (per due terzi fuggiti in Cisgiordania e a Gaza), che a quelli della guerra del 1967, argomentando che a loro è riservato lo "Stato Arabo" previsto dall'ONU nel 1947, e che comunque il loro numero equivale a quello dei profughi ebrei dai paesi arabi. Per entrambe le ragioni, quindi, spetterebbe a questi ultimi farsi carico dei rifugiati. [Da sottolineare che il diritto dei profughi al ritorno in patria è sancito dall'articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, approvata nel dicembre 1948, ma spesso disattesa, e non solo da Israele]


In conclusione

         Tutto ciò, Presidente Napolitano, vogliamo ribadirlo con forza, è parte integrante del movimento sionista e della sua ideologia, che implicavano fin dall’inizio l’aggressiva colonizzazione della Terra di Palestina e l’espulsione (o lo sterminio) dei Palestinesi in quanto razza inferiore! [Non a caso le Nazioni Unite, in una risoluzione del 1975, equipararono il sionismo al razzismo, ma la risoluzione fu poi ritirata nel 1991 come condizione da parte di Israele per partecipare alla Conferenza di Madrid, propedeutica agli accordi di Oslo] Come è stato pertinentemente notato, «i verbi ebraici le-hitnahel, le hityashev e i nomi Hintanchalut e Hityasvut sono stati usati, dal 1882 sino a oggi, dal movimento sionista e poi dallo Stato di Israele per descrivere l’espropriazione di terre in Palestina. Questi termini significano “colonizzare”, come è stato apertamente riconosciuto dai primi sionisti stessi. Fino alla Prima Guerra Mondiale, il termine “colonialismo” aveva un’accezione positiva nel contesto europeo. Ma quando l’immagine pubblica del colonialismo è cambiata e il termine ha iniziato a connotare negativamente le pratiche e le politiche europee di espansione, il movimento sionista e lo Stato di Israele hanno cominciato a cercare una traduzione più positiva di questi termini ebraici. Da “colonizzare” si è passati a “insediarsi”. Ma anche il termine “insediarsi” è parte costitutiva della filosofia coloniale, come hanno messo in luce i vocabolari politici e scientifici del XX e XXI secolo. Non esiste una via d’uscita: il movimento sionista prima, lo Stato di Israele poi, hanno sempre considerato gli espropri di terre palestinesi, molto spesso accompagnati dall’espulsione dei nativi, come un atto di colonizzazione» (Ilan Pappé, op. cit., pp. 24-25).
         Sappiamo che la maggior parte degli ebrei della Diaspora sentono oggi un senso di attaccamento e di identificazione con Israele; e sappiamo anche che il distacco dalla comunità di appartenenza non è facile, anche perché i sostenitori fanatici di Israele adoperano volentieri l'aggettivo antisemita nei confronti dei loro oppositori, o persino la famigerata (non certo per colpa del povero Theodor Lessing, assassinato dai nazisti!) variante ebreo che odia se stesso se chi si oppone appartiene al medesimo gruppo etnico/religioso (alcuni gruppi ultra-ortodossi, come ad esempio i Neturei Karta, mantengono a tutt'oggi questa posizione). Per quanto ci riguarda, come non abbiamo mai creduto al falso ritornello della «necessaria autodifesa» sempre sbandierato dai governi israeliani, così non temiamo affatto l’accusa iper-ideologica di «antisemitismo», provenga questa dalle «élites sioniste» (massimamente responsabili delle nefandezze perpetrate in nome della loro ideologia) e dai loro più o meno potenti alleati, o ripetuta a pappagallo dai loro sudditi (come in ogni parte del mondo, più o meno imbambolati e soggiogati dalla potente propaganda con cui esse li hanno manipolati e continuano a manipolarli). La nostra forza sta nei profondi, consolidati rapporti di amicizia con ebrei che hanno il coraggio di percorrere insieme a noi il difficile eppur lineare sentiero della conoscenza e della verità, e con altri ebrei che conosciamo solo attraverso le loro opere, ma che con esse ci hanno insegnato a costruire e consolidare i nostri saperi (di qui, ad esempio, il nostro amore per la musica e la letteratura ebraiche, o per il misticismo ebraico, uno dei patrimoni dell’umanità).         
           Fra questi ultimi spicca Ronen Berelovich, autore di The Zionist Story (Storia del Sionismo, ‘testo/testimonianza’ che ci permettiamo di consigliarLe caldamente, signor Presidente. Film documentario indipendente, è la storia del sionismo e dell’applicazione pratica di questa ideologia nella creazione dello Stato di Israele. Mostra appunto, e con estrema efficacia, la pulizia etnica, il colonialismo e l’apartheid usati verso la popolazione palestinese allo scopo di produrre uno stato ebraico demograficamente “puro”. Dobbiamo precisare che Ronen Berelovich è un cittadino israeliano che ha fatto anche parte dell’esercito israeliano come riservista, esperienza questa che gli ha permesso di vivere precise fasi dell'«occupazione» in prima persona. Ecco le sue motivazioni: «Ho realizzato questo documentario affinchè nessuno in futuro possa dire “Noi non sapevamo” (…) Ho un grosso debito verso i palestinesi, semplicemente perché sono cresciuto in Israele, nella terra di qualcun altro. Dato che molti miei familiari furono vittime dell’Olocausto, nego il permesso al governo israeliano e ai sionisti del mondo di usare la loro morte in tale orribile modo. La cosa triste è che quei 6milioni di ebrei morti per una ideologia fascista e razzista sono cinicamente usati per giustificare e supportare un’altra ideologia fascista e razzista».
          Diversamente da - eppure in perfetta sintonia con - Ronen, ben consci dello status internazionale di cui gode oggi Israele presso il club dei potenti della terra (gli affari sono affari, nevvero?!), il nostro debito/impegno verso i palestinesi è lo stesso di sempre: quello di stare dalla parte dei deboli. Perciò noi non accettiamo che i palestinesi della Galilea e di al-Naqab (il Negev) continuino a subire espropri, deportazioni e confische di terre, demolizioni di case, e siano esposti a nuove serie di leggi razziste che cancellano i loro più essenziali e basilari diritti; non accettiamo che i palestinesi della Cisgiordania continuino ad essere quotidianamente umiliati ai check-point, arrestati senza processo, privati delle loro terre a favore dei coloni e della Israel Land Authority (la principale agenzia di Stato che gestisce le terre di proprietà del governo e del Jewish National Found, agenzia in prima linea nell’allocazione di terre secondo principi discriminatori), ‘tagliati fuori’ dai propri villaggi e città a causa del sistema di apartheid fatto di muri e barriere che circondano le loro case (coloro che tentano di superare questo sistema pagano con la vita, oppure vengono arrestati!); non accettiamo che la gente di Gaza sia ancora sottoposta ad una micidiale, barbarica combinazione di assedio, bombardamenti e incursioni in quella che rimane la più grande prigione a cielo aperto della terra; non accettiamo, infine, che milioni di rifugiati languiscano ancora nei campi profughi, e che migliaia di prigionieri politici continuino a marcire nelle carceri israeliane, completamente ignorati nei loro diritti dai potenti della terra (Cfr. Ilan Pappé, op. cit., pp. 5-6; e nota 1, p. 34).
        Inoltre, noi detestiamo il fatto che un tredicenne a passeggio sulla spiaggia venga ammazzato da un colpo partito per divertimento e senso di impunità da una delle navi israeliane che assediano il mare di Gaza impedendo ai pescatori di uscire in mare o di allontanarsi più di tanto dalla costa. Detestiamo la politica paranoica, aggressiva e guerrafondaia dei governi sionisti. Detestiamo che Israele sia in possesso di armi nucleari e continui a produrle, come detestiamo che i suoi sommergibili atomici (dono della Germania!) scorrazzino sinistramente nel Mare Nostrum (ossia appartenente a tutte le genti che vi si bagnano).
     Vorremmo senz’altro vedere Netanyahu alla sbarra per i crimini contro l’umanità compiuti dai suoi generali. Ma, soprattutto, vorremmo vedere: uno Stato Palestinese libero, indipendente e protagonista all’ONU, e non devastato e frammentato; la restituzione dei territori occupati o espropriati; Gerusalemme città cosmopolita aperta a tutti e liberata dall’assedio degli arroganti coloni che ne infangano la sacralità.
         E se, dopo tutto questo, noi siamo fra coloro che hanno pensieri aberranti, ebbene, sappia che non ce ne vergogniamo affatto, semmai, con tutto il rispetto, proviamo molto imbarazzo per Lei, signor Presidente, e ossequiosamente (come è dovuto alla Sua Alta Carica), Le porgiamo i nostri saluti.



Giampaolo Laviano & i suoi Cari Amici Ebrei