Contro il Sionismo. Un'ideologia razzista e violenta
Lettera aperta al presidente Napolitano in rapporto alla sua indebita assimilazione dell'antisionismo all'antisemitismo.
Il Diavolo è un ottimista se pensa
di poter peggiorare gli uomini.
Karl Kraus
Par. 1) Antisionismo e antisemitismo, sono davvero assimilabili?
Qualche tempo fa è accaduto che un gruppo di
fascistelli di infingarda e intollerabile ignoranza abbia esternato
pensieri antisemitici veramente gravi. Lei Presidente Napolitano,
puntuale come era necessario, alla prima uscita pubblica ha espresso la
giusta e ferma indignazione verso questi atteggiamenti. Grazie signor
Presidente. Ma tant'è, ormai la legge contro l'apologia di fascismo
esiste (?) soltanto sulla carta, stadi e licei sono pieni di
fascistelli arroganti e non abbiamo neppure una legge contro il
razzismo, l'omofobia e l'uso della tortura. Così orde di tassinari
festeggiano col saluto romano l'elezione di Alemanno a sindaco di Roma,
episodi raccapriccianti vedono protagonisti/carnefici agenti di pubblica
sicurezza nelle strade (uno per tutti: la tragica fine del giovane
Federico Aldrovandi), nelle carceri e persino nelle questure, sindaci
del Nord Est blaterano indecenti insulti razzisti contro gli immigrati,
nei Cie ragazzi, donne e uomini sono reclusi (al pari che nelle carceri)
in condizioni vergognosamente lesive dei più elementari diritti umani e
civili (cibo scarso e cattivo, igiene pressoché inesistente, abusi di
ansiolitici prescritti indebitamente…), fuori dei Cie proliferano
allucinanti accampamenti "di fortuna", come quella vera e propria
"fangaia" nei pressi della stazione Ostiense in cui sono "vissuti" per
anni, in un indicibile degrado, gruppi di ragazzi afghani fuggiti
bambini dal loro Paese in fiamme. Del resto, perché allarmarsi: non era
forse già accaduto che il nostro "democratico" Parlamento avesse
promulgato (e Lei, signor Presidente, senza batter ciglio avesse
ratificato) la legge per il respingimento in mare dei profughi
provenienti dalla Libia, contribuendo a trasformare il Mediterraneo in
una tomba per migliaia e migliaia di poveri infelici, "colpevoli" solo
di aver osato cercare un destino meno gramo? E c'è forse ancora qualcuno
che si chieda senza retorica cosa sia rimasto in questo Paese dello
"spirito fondante" delle nostre istituzioni democratiche, lo spirito di
quella Resistenza che, saldando un ritrovato slancio ideale ad un mai
domo senso della giustizia, con un inestimabile sacrificio di sangue
aveva saputo liberarsi in un unico movimento dell'occupazione nazista e
del fascismo?
Ebbene, signor Presidente, concludendo la sua
apprezzabile, sacrosanta rampogna di cui sopra, Lei ha usato le testuali
parole: «… oggi l'antisionismo e l'antisemitismo sono aberrazioni
mentali». Non nutriamo dubbi (anche se vorremmo tanto essere smentiti)
circa il fatto che molte brave persone la pensino esattamente come Lei.
Noi invece ci siamo domandati e ci permettiamo di domandarLe: ma come è
possibile mettere uno accanto all'altro, peraltro così disinvoltamente, antisionismo e antisemitismo, quasi fossero termini e concetti equivalenti, di eguale segno storico, politico, etico?
Come e dove, signor Presidente, ci siamo, ci hanno informato su cosa è il sionismo
oggi? Quante persone sono realmente (e non intendiamo 'pienamente',
bensì 'sufficientemente') a conoscenza di quando e come è nato il sionismo
e di ciò che esso ha prodotto in terra di Palestina fino ad oggi, ossia
di quali sono stati e sono i suoi progetti e programmi e di come li ha
messi in atto nel passato e continua a metterli in atto nel presente?
Inoltre, per quanto i "fatti" siano ormai sotto gli occhi di tutti
grazie alla odierna 'capillarità' della cosiddetta "copertura
mediatica", siamo così sicuri che le varie "interpretazioni dei fatti"
(qualcuno ci ha insegnato tempo fa, e una volta per tutte, che «non
esistono fatti senza interpretazioni»!) riescano a comporre un "quadro
informativo" il più 'obiettivo' possibile? Non entra forse ogni volta in
gioco, mai come in rapporto alla questione del sionismo e del conseguente (è la nostra petizione di principio!), incessante conflitto israelo-palestinese,
un elemento la cui portata evocativa e simbolica è talmente enorme,
incommensurabile, da costituire un vero e proprio 'altare' sul quale
financo la 'ricerca di una potenziale obiettività' può essere
tranquillamente sacrificata?
Che paradosso: il mondo occidentale,
nel suo complesso, non era poi così "informato" all'epoca in cui i
nazisti pianificarono quella Soluzione Finale che avrebbe
portato allo sterminio di milioni di ebrei (insieme, va sempre
ricordato, a migliaia e migliaia di 'zingari', disabili, omosessuali,
comunisti e altri oppositori politici), eppure ciò non gli ha impedito,
una volta preso atto dell'indicibile orrore dei lager e dei forni crematori, di sviluppare (e pour cause!)
un profondo senso di colpa, che si è rapidamente diffuso in ogni dove e
dura a tutt'oggi. In particolare l'intera Europa, per quanto
oscuramente, sembrava improvvisamente maturare la consapevolezza che la
mala pianta dell'antisemitismo, una volta incubata nei
meandri della propria storia, avesse preso più o meno sotterraneamente
ad incistarsi e a proliferare, fino ad esplodere non solo in forme di
una mostruosità inconcepibile, ma al centro di uno dei cuori pulsanti
della propria civiltà, in quella Germania che, oltre ad aver donato al
mondo geni come Goethe, Beethoven, Schliemann, portatori di un
'umanesimo' davvero universale, era giunta ad essere una società nella
quale gli ebrei - ottimamente insediati in essa a tutti i livelli - si sentivano realmente 'a casa'! Giusto allora bollare l'antisemitismo, in ogni sua manifestazione, come un'aberrazione mentale, giusto predisporre gli anticorpi culturali, politico-ideologici e legali affinché una simile aberrazione venga stroncata sul nascere, giusto concepire e portare avanti simboliche e materiali forme 'risarcitorie' (ancorché insufficienti rispetto all'immane tragedia) nei confronti di quel popolo 'disperso' che a causa di essa è rimasto vittima di ogni violenza, fino alla più estrema. Giusto quindi, e lo diciamo per inciso, che
la 'comunità internazionale' abbia concentrato ogni energia nello
sforzo di dotare gli ebrei di una propria terra e di un proprio Stato,
in cui essi potessero sentirsi finalmente al sicuro, per sempre al
riparo da pregiudizi e persecuzioni!
Par. 2) Theodor Herzl e il movimento sionista
Chissà, se fosse stato ancora vivo (era deceduto nel 1904), come si sarebbe sentito Theodor Herzl, oggi unanimemente ritenuto il fondatore del sionismo, all'indomani di quel 14 maggio 1948 in cui terminava il mandato britannico sulla Palestina e l'Agenzia Ebraica dichiarava immediatamente l'indipendenza, e con ciò la nascita ufficiale, dello Stato d'Israele:
da un lato, siamo sicuri che ne avrebbe gioito, vedendo probabilmente
nell'evento il giusto coronamento del suo personale, efficacissimo
impegno teorico e pratico-politico; dall'altro lato, però, fino a che
punto egli avrebbe gioito, visto che in quello stesso giorno il neonato
Stato veniva apertamente attaccato dalla Siria, dall'Egitto, dall'Iraq,
ai quali si sarebbe aggiunta in seguito la Giordania? Ma soprattutto: sarebbe rimasto sorpreso da cotanta manifestazione di ostile aggressività da parte del mondo arabo, lui che, dopo aver pubblicato il brillante e fortunato saggio Lo stato ebraico (1896), volendo istituire il sionismo come movimento permanente aveva creato l'Organizzazione Sionista (dal 1960 Mondiale, fu il massimo organismo politico ebraico fino alla istituzione dello Stato d'Israele), nonché organizzato il primo Congresso Sionista Mondiale
(Basilea, 29-31 agosto 1897)? Naturalmente, non possiamo avere risposte
a queste domande; tuttavia, possiamo ricordare che tale fondativo congresso si era concluso con l'approvazione di un programma il quale affermava la scelta politica dell'Organizzazione Sionista di insediarsi nella Terra Promessa: «Il sionismo persegue per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita». È qui la chiave, a nostro avviso, per comprendere appieno sia la natura e le finalità del movimento sionista, sia le gravi contraddizioni nelle quali esso era destinato a involversi; è a partire di qui, infatti, che si innescano quei tumultuosi processi geo-politici che sarebbero culminati nella trasformazione della Palestina, e più in generale del Medio Oriente, nella zona più calda del pianeta!
Ci sia consentito ripercorrere, per quanto schematicamente e in estrema sintesi, alcuni momenti salienti di questa tragica storia, non certo pro domo Sua,
signor Presidente, che oltre ad essere un eminente politico, è anche un
uomo di grande cultura, bensì a vantaggio di quei lettori 'comuni' che
vorranno accostarsi a questa lettera aperta. Tuttavia, intendiamo farlo non vestendo panni para-accademici, bensì provando a calarci in quelli (ne converrà) infinitamente più scomodi di un palestinese qualunque, uno che ha vissuto tale storia sulla propria pelle. Per comodità, lo chiameremo familiarmente lui. E intanto, un certo sconcerto lui deve averlo provato dinanzi alle varie, massicce ondate migratorie ebraiche verso la sua terra (pur sempre sua,
anche se nel periodo in oggetto dapprima occupata dagli ottomani,
quindi dai britannici), susseguitesi in pratica ininterrottamente tra la
fine del XIX e la metà del XX secolo; in particolare: quelle causate,
in Russia, prima dai pogrom degli anni 1881-1882 e 1903-1906 (in questo secondo caso provocati dalla pubblicazione dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion, falso documento segreto ebraico e vero libello antisemita prodotto dall'Ochrana, la polizia segreta zarista), poi dagli sconvolgimenti della rivoluzione bolscevica
e della guerra civile; quelle determinate, soprattutto in Germania e
nell'Europa orientale, dalle feroci persecuzioni naziste; quelle,
infine, verificatesi subito dopo l'indipendenza dello Stato Ebraico, con l'afflusso dei sopravvissuti alla Shoah (1948-1951). Da rilevare - ci sembra - che già all'epoca della seconda migrazione (1904-1914) lui non possa che 'prendere atto' di (almeno) un paio di fattori 'stranianti': 1) con i fondi sionisti, e principalmente del Fondo nazionale ebraico, si acquistano terre dichiarate inalienabili da cui è esclusa la manodopera indigena, e si costituiscono insediamenti ed un'economia chiusa da cui gli arabi sono esclusi; 2) i chaluzim, i "pionieri" dell'esodo sionista, non portano con sé solo la loro forza lavoro, la loro famiglia, la loro cultura, ma anche l'idea europea di "Nazione".
Ora, nel corso dei secoli, c'è sempre stata una corrente
migratoria ebraica verso la Palestina
(in particolare a Gerusalemme,
la città
santa della
religione ebraica, dove peraltro è quasi sempre esistita una
minoranza ebraica), motivata essenzialmente da questioni religiose.
L'immigrazione sionista
di natura
laica è,
invece, una conseguenza molto più tarda dell'emancipazione
degli
ebrei europei nel corso della rivoluzione
francese e
per tutto il XIX secolo fino alla rivoluzione
russa, e
delle reazioni ostili alla conseguente tendenza degli ebrei
all'assimilazione
nelle varie società nazionali. L’idea di creare uno Stato
propriamente ebraico
dove l’antisemitismo
sia assente per definizione,
idea espressa in vari movimenti e manifesti ideologici, prende a
circolare dal 1880; circa la sua
ubicazione,
si pensa alle località più disparate sparse per il mondo, anche se
l’opzione di gran lunga più popolare (che prevarrà nel 1905 e
vincerà definitivamente dopo il 1917) resta la terra di Sion
(il monte
che vide il primitivo nucleo della città di Gerusalemme),
la Palestina,
appunto. Le elaborazioni e l’attivismo di Herzl
si
inseriscono in realtà in un movimento migratorio ebraico già in
atto, e, in qualche modo, già orientato!
Ma non è tutto. Non avendo ottenuto il sostegno ufficiale
dell'Impero
Ottomano,
fino al 1917 l'Organizzazione
Sionista,
mediante varie istituzioni, persegue l'obiettivo della costruzione
di una patria
attraverso una strategia
di immigrazione (aliyah:”ascesa”
in ebraico) continua su piccola scala.
Lo
sconcerto del nostro lui deve aver
cominciato a mutarsi in
aperta
rabbia il
2 novembre del 1917, quando, nell’imminenza della vittoria
sull’Impero Ottomano, il Regno Unito si impegna a mettere a
disposizione del movimento
sionista
dei territori in Palestina
per costituire un focolare
nazionale (Dichiarazione
di Balfour).
Ma la sua
rabbia è destinata ad aumentare nel 1922, quando, chiesto e ottenuto
un Mandato
sulla
Palestina
(che
includeva anche l’odierna Giordania), l’Impero Britannico ribadisce
e precisa il suo impegno; e nel 1923, quando in conformità con
l'articolo 4 del Mandato
stesso, e
dopo l'assenso del Congresso
Sionista,
la comunità
ebraica in Palestina (Yishuv)
costituisce l’Agenzia
Ebraica
come organo
di autogoverno (mentre
i notabili
arabi palestinesi
rifiutano la proposta britannica di creare un'equivalente Agenzia
Araba!),
organo di
autogoverno
che nel 1929 viene riconosciuto dai britannici ricevendo
poteri para-statali
(gestione di scuole, ospedali, infrastrutture, eccetera). E guarda
caso, se le prime proteste arabe relative all'immigrazione ebraica si
registrano verso la fine del XIX secolo, e i primi scontri fra le due
comunità si hanno solo negli anni ’20 - a Gerusalemme (1920) e a
Giaffa (1921) -, è fra il 1929 e il 1939 che gli scontri si fanno
vasti e sanguinosi - i moti del 1929 e la cosiddetta "Grande
Rivolta" del triennio 1936-1939 –, e vengono sedati duramente
dall'esercito britannico, con alto numero di vittime da entrambi le
parti.
Nel 1939 i britannici, dopo aver proposto
inutilmente diversi piani di divisione del territorio mandatario in due
stati distinti, emettono una legge, il Libro Bianco, con cui
tentano di porre un limite all'immigrazione ebraica, ma questa, con la
Seconda Guerra Mondiale, aumenta vertiginosamente. È una fase in cui
mentre le organizzazioni ebraiche più moderate, come l'Haganah di David Ben Gurion, si limitano agli scontri con gli arabi, quelle estremistiche arrivano ad aggredire apertamente i britannici, militari e civili. Fra queste ultime si distinguono l'Irgun di Menachem Begin (suo il clamoroso attentato dinamitardo del luglio 1946 all'hotel "King David" di Gerusalemme - un centinaio di vittime -, contro la segreteria di governo e i comandi militari inglesi) e la Banda Stern, descritte dai britannici come organizzazioni terroristiche. Nel maggio 1947 il Regno Unito annuncia il disimpegno dal mandato sulla Palestina e il suo abbandono entro un anno. A questo punto gli eventi si concentrano e precipitano. Il 15 maggio 1947 viene costituito l'UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) che il 3 settembre raccomanda a maggioranza la divisione della Palestina occidentale (quella orientale
aveva già formato lo Stato arabo di Giordania) in due stati di simile
estensione, uno a maggioranza ebraica e l'altro a maggioranza araba,
mentre Gerusalemme sarebbe diventata una città internazionale (Corpus separatum) controllata dall'ONU.
Par. 3) al-Nakba, la catastrofe per la Palestina e i palestinesi
Il 29 novembre 1947 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota (33 sì, 10 no, 13 astenuti) la risoluzione 181, contenente la divisione della Palestina.
Le principali
organizzazioni ebraiche accettano la proposta (rifiuti provengono solo
dai gruppi più estremisti che puntano alla costituzione della Grande Israele,
comprendente tutto il territorio mandatario e parte delle nazioni
confinanti) mentre la popolazione festeggia nelle strade la notizia.
Invece la popolazione araba e i Paesi arabi circostanti la rifiutano,
per ragioni di principio religiose (sia islamiche che cristiane) e
politiche, oltre che per ragioni pratiche (tra le principali
critiche da parte araba il fatto che agli ebrei, solo un terzo della
popolazione, sia assegnato il 56% del territorio, che questo comprenda
le principali fonti idriche della regione e che lo stato arabo non abbia
sbocchi sul Mar Rosso). Gli arabi chiedono uno stato unico, con il
rientro in Europa di tutti gli ebrei immigrati negli ultimi decenni. Le
nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla
creazione di uno stato ebraico, fanno ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo la non competenza dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso viene respinto. Dopo alcuni mesi di scontri interni alla popolazione e di scaramucce sui confini con i Paesi arabi, siamo al fatidico 14 maggio 1948, e Israele autoproclama la propria esistenza: il mondo arabo gli dichiara guerra e lui, ormai disperato e inferocito, fa la guerra!
Le forze ebraiche, che inizialmente conoscono gravi difficoltà
nell'equipaggiarsi ma che sono meglio organizzate e ricevono continui
rinforzi provenienti dall'immigrazione nuovamente possibile, vincono la
guerra, che si conclude con una sequenza di armistizi, ma nessun trattato di pace. In seguito alla guerra, Israele conquista un territorio più ampio di quello promesso dalle Nazioni Unite, mentre la Giordania occupa la palestinese Cisgiordania, e l'Egitto la Striscia di Gaza, parimenti palestinese; Gerusalemme resta divisa tra Israeliani e Giordani. Questo assetto territoriale rimarrà intatto fino al 1967. Lo Stato di Israele viene riconosciuto dalle Nazioni Unite (grandi potenze
in testa, ovviamente: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina, Gran
Bretagna, Francia) e da buona parte del mondo, ma non dai Paesi arabi
nella loro totalità (che rinunciano quindi a costituire lo stato arabo in Cisgiordaniae Gaza). Nel settembre 1948 il conte Folke Bernadotte, incaricato dalle Nazioni Unite e attivo per il ritorno dei profughi palestinesinelle loro case, viene assassinato dal gruppo Lehi (Banda Stern); Israele arresta alcuni appartenenti alla banda, ma li rilascia subito! Nel mondo arabo, e in buona parte del mondo islamico, la creazione di Israele viene vista come un atto di aggressione contro il mondo arabo, il furto di un territorio e un atto di spossessamento nei confronti dei Palestinesi. Nel 1949 la Lega Araba approva due risoluzioni: nella prima si vieta ai governi di tutti gli Stati membri di concedere la cittadinanza ai profughi palestinesi, nella seconda si ordina loro di facilitare l'espulsione degli ebrei dalle proprie terre. Nel 1950 lo Stato di Israele riconosce con la Legge del ritorno il diritto di qualsiasi ebreo del mondo di immigrare in Israele, semplicemente richiedendolo, e di ricevere la cittadinanza non appena arrivato. A questo punto, il nostro lui, posto che sia ancora vivo, è disperato, amareggiato, frustrato. Non sa che il peggio, specie per i suoi figli, nipoti e pronipoti, è ancora di là da venire!
Rispetto
a quanto sin qui visto, si potrebbero già sollevare numerose
‘istanze critiche’, come in effetti hanno fatto via via sia gli
osservatori che gli analisti e gli storici più accorti. Qui ci
limitiamo, per ragioni di spazio, a rilevare quanto segue: se
dall’imperialismo britannico c’era ben poco da aspettarsi circa
il
rispetto dei diritti dei Palestinesi
a casa loro, sarebbe
stato invece del tutto lecito pretenderlo da parte della ‘comunità
internazionale’ e dell’ONU!
Ma tant’è.
Il 23º Congresso
Sionista
(1951), il primo dopo l'indipendenza, per la prima volta tenutosi non
in Europa ma a Gerusalemme
(e non a caso apertosi simbolicamente davanti alla tomba di Herzl,
appena traslata, secondo il suo testamento, da Vienna) ponendosi in
continuità con il "programma di Basilea", ormai
realizzato,
ridefinisce
i compiti
del
movimento
sionista:
«consolidamento dello Stato di Israele, riunione degli esiliati in
Terra di Israele, tutela dell'unità del Popolo Ebraico». Ora,
considerando che la Terra
di Israele non
può
essere
altro che
una parte
di quella
Terra di
Palestina da
secoli ormai abitata da un altro
popolo,
e
che tale
Terra di
Palestina,
al pari di ogni altra al mondo, è inevitabilmente limitata nella
propria estensione
e nelle
proprie risorse,
non era forse il caso che il programma
sionista si
aprisse ora alle trattative più distensive possibili con i
conterranei,
magari cominciando col chiedere loro scusa per ciò che essi avevano
appena vissuto/subìto come una vera e propria catastrofe
(in
arabo
al-Nakba)?
Neanche
per sogno! Sull’onda dei freschi successi politico-militari, la
leadership
israeliana
(generalmente promossa
per meriti
conseguiti direttamente sui campi di battaglia),
sotto l’ala protettiva dei gendarmi
del mondo,
gli Stati Uniti, non ha trovato di meglio che gonfiare
ulteriormente i muscoli e armarsi fino ai denti,
presto entrando persino nel club
esclusivo delle
potenze nucleari (un capitolo, questo, che meriterebbe un volume a
parte)! Come noto, da allora in tutta l’area
mediorentale
i conflitti,
dalle scaramucce ai raid,
dai kamikaze
alle
rappresaglie, dai blocchi navali alle guerre aperte (a tacere delle
innumerevoli
operazioni
condotte da uno
dei servizi segreti più efficienti del mondo:
il Mossad),
non si
contano più, e a
pagarne il prezzo più alto
è stato ed è un intero
popolo,
che a sua volta si ritrova, paradossalmente, o ‘coatto’ o
‘disperso’.
Par. 4) Colonizzazione incessante e sistematico sterminio
Ebbene, Presidente
Napolitano, ci sembra inutile girarci attorno: se
questi sono oggettivamente i (pessimi) frutti, il seme che li ha
generati è oggettivamente l’ideologia
sionista,
e la pianta
che li ha alimentati, ormai purtroppo ben radicata in Terra
di Palestina,
è
oggettivamente il
movimento
sionista,
un movimento
nazionalistico estremista
(per non dire ‘fanatico’) e razzista
(incredibile, nevvero?) che ha via via mutato la propria ferma (e
fino a un certo punto legittima)
determinazione in feroce protervia.
E che tale
nazionalismo
razzista
abbia agito fin dal 1948 assumendo e praticando le sue forme più
odiose e aberranti, ossia la colonizzazione
e la pulizia etnica
nei confronti dei Palestinesi,
è attestato soprattutto dalle strazianti
testimonianze delle vittime, tramandatesi di generazione in
generazione e giunte così fino a noi.
Villaggi e villaggi, sulle colline più lussureggianti, tra i
frutteti, gli uliveti, i vigneti più ricchi, furono sgomberati a
mano armata dall’esercito israeliano: le case più belle
conservate, le più povere bruciate. Poca e vana la resistenza di
‘fucilotti’ di campagna contro mezzi corazzati e un’armata ben
organizzata e particolarmente crudele. Gli autoctoni
furono incanalati in lunghe file – «lasciate tutto!» -, nemmeno
un asino per portare un fagotto di stracci e coperte, nemmeno una
capra per il latte dei bambini. «Il giorno dopo cercarono di tornare
alle loro case, ma i fucili puntati contro le schiene glielo
impedirono. Per tre giorni e due notti camminarono su e giù per le
colline impietose sotto il bagliore accecante del sole e lo sguardo
invisibile ma infallibile dei cecchini. Un bambino e sua nonna
caddero per terra e morirono. Una donna abortì, i corpi disidratati
di due bambini si afflosciarono tra le braccia delle madri.
Riuscirono a raggiungere Jenin, riposando dovunque trovavano spazio
nell’ondata di profughi che confluivano dagli altri paesi (…)
quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di
nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia
sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro
lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e
corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi,
segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto
acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello
spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo
patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino –
retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti
e altri angoli del mondo. Nel dolore di una storia sepolta viva, in
Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di
tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia
infinita di un preciso momento storico». (Susan Abulhawa, Ogni
mattina a Jenin,
Feltrinelli, Milano 2011, pp. 49-51. Stranamente, questo (nonostante
tutto!)
splendido volume era stato già pubblicato nel 2006 con il titolo,
ben più cogente, Nel
segno di David:
un caso di
censura a
posteriori?).
Ma
il peggio, come si accennava, comincia ora. Per Israele,
la terra
sarà dura
da arare, e coloro che la abitano da sempre, i palestinesi
non ebrei,
saranno
come pesanti sassi, difficili da gettare lontano! Ai
confini della Cisgiordania
e del
Libano, sorgono affollati campi
profughi, che
l’esercito sionista
circonda subito con minacciose torrette di controllo e snervanti
check-point, e sottopone a continui black-out. All’interno, tutti
umiliati, increduli, storditi, a contare i propri lutti; e quanti
anziani vi sarebbero poi morti, «lasciando ai loro eredi le grosse
chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali
compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato
britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida
volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni
restasse intrappolato in quel complotto di ladri» (Susan Abulhawa,
op. cit., p. 51). A poco a poco le tende pietosamente inviate da
Siria e Giordania si trasformano in casupole con pareti di mattoni e
fango e tetti in lamiera (tra l’una e l’altra vicoli strettissimi
e fogne a cielo aperto); si tirano su anche piccole scuole, per
sottrarre il più possibile i bambini al degrado e all’abbrutimento.
In ogni campo
vengono mandati osservatori
dell’ONU,
che però dinanzi alle angherie e ai soprusi dell’esercito sionista
sono totalmente impotenti, limitandosi così a prendere atto della
situazione. Intere generazioni di giovani, deprivate del proprio
futuro, crescono in una rabbia incontenibile che presto prende fuoco,
trasformandosi in odio e follia. Dapprima rivolte e attentati, in
seguito autobombe, razzi, cinture esplosive: martirio
e omicidio mescolano il sangue di oppressi e oppressori.
Sul fronte
esterno,
Israele
combatte una sequela micidiale e interminabile di guerre ‘aperte’:
da quella di Suez
(1956), a quella dei Sei
giorni
(1967), da quella dello Yom
Kippur
(1973) alle tre
(secondo Israele due) col Libano: per
la precisione, due
invasioni (1978:
Operazione
Litani;
1982: una
campagna che doveva risolversi in 72 ore, ma sarebbe invece durata
tre anni!
Il Libano,
peraltro, era
già dilaniato dalla guerra civile [1975-1990])
e un
devastante bombardamento aereo (accompagnato da pesanti
cannoneggiamenti) [2006].
All’interno di questi conflitti, nonché fra l’uno e l’altro –
tanto per non perdere tempo e non farsi mancare nulla – spiccano
alcuni episodi
che si distinguono da un lato per la loro belluina
atrocità,
dall’altro per le loro gravissime
ripercussioni sul piano strettamente politico.
Il
18 settembre 1982, a Beirut, i
falangisti dell’alleato libanese degli israeliani,
Saad Haddad,
compiono un’orribile strage nei campi
profughi palestinesi
di Sabra
e Chatila:
duemila
morti, in prevalenza donne e bambini.
L’anno dopo il Rapporto
della Commissione governativa d’inchiesta
israeliana
accusa l’ex
ministro della Difesa
Ariel
Sharon
di avere
avuto dirette responsabilità nei massacri:
Sharon sarà
primo
ministro
di Israele
dal 2001 al 2006. In questa stessa guerra, i cui scopi
dichiarati
sono per Israele
l’autodifesa,
la pace e il rovesciamento dell’OLP
(l’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina fondata
da Yasser
Arafat nel
1964, rifugiatasi in Libano), il Paese
dei Cedri
viene messo a ferro e fuoco; alla
lettera:«Nel
suo epico memoriale, Il
martirio di una nazione. Il Libano in guerra,
il corrispondente britannico Robert Fisk descriveva così le
bombe al fosforo israeliane:
“la storia della dottoressa Shamma’a era agghiacciante e me la
raccontò con una voce spezzata: ‘Ho dovuto prendere i bambini e
infilarli dentro a dei secchi d’acqua per spegnere le fiamme’
disse. ‘Quando li ho tirati fuori, mezz’ora dopo, bruciavano
ancora. Anche nella camera mortuaria, hanno continuato a bruciare
senza fiamme per ore’. La mattina dopo, Amal Shamma’a portò quei
corpicini fuori dall’obitorio per seppellirli. Con suo grande
orrore, li vide divampare di nuovo”» (Susan Abulhawa, op. cit.,
p.263, cors. ns.).
Nel 1988, nei territori
palestinesi scoppia
l’Intifada
(sciopero
generale e lancio di pietre;
ne seguirà una seconda
nel 1990, poi molte altre), e l’esercito
sionista
la reprime con una ferocia inaudita: fra
le vittime, innumerevoli sono i bambini, che vengono non solo
arrestati e brutalmente torturati, ma spesso anche assassinati in
piazza dai tiratori scelti delle unità speciali (Cfr.
Susan Abulhawa, op.cit, pp. 298-300).
Nel 1993 i laburisti
vincono le elezioni in Israele:
primo ministro è Yitzhak
Rabin, il
quale promuove un’intesa
di
principio con
l’OLP di
Arafat
per il riconoscimento
reciproco,
la pace
con i
Palestinesi
e l’autonomia
di Gaza
e
Gerico (Accordi di Oslo).
Nel 1995, poco dopo aver fissato con Arafat
(a
Washington) le tappe per l’elezione
di un
Consiglio
legislativo Palestinese e
per il
ritiro israeliano
dai principali centri della
Cisgiordania,
Rabin viene
assassinato
a Tel
Aviv da
Ygal Amir,
un
estremista della destra ebraica.
Nel 1996 alle elezioni
israeliane
vince la destra
(il Likud),
e viene
eletto primo ministro Benjamin
Netanyahu,
il quale sembra proseguire nella strada degli accordi
con Arafat;
stavolta a farli saltare (per la precisione l’anno dopo) ci pensano
bene gli estremisti
palestinesi
di Hamas
e i coloni
israeliani,
con una serie di attentati e contro attentati a Gerusalemme
e in Cisgiordania.
Tra il dicembre del 2008 e
il gennaio del 2009 l’esercito
sionista
intraprende l’operazione
“Piombo Fuso”, bombardando
ed entrando via terra in quella che è una delle prigioni
a cielo aperto
più popolose del mondo:
la Striscia
di Gaza.
L’operazione costa
la vita a
quasi 1400 palestinesi
e porta
con sé
la
distruzione
e il danneggiamento di abitazioni, infrastrutture e proprietà,
come messo in luce dalle Nazioni
Unite nel
Rapporto
Goldstone.
A oggi l’intera Striscia
resta
sotto assedio e, nel
quadro del
regime
israeliano
di
restrizioni al transito di beni di ogni genere da e verso l’area,
non vi vengono fatti entrare materiali per la ricostruzione
post-attacco (Cfr.
Ilan Pappé, Israele/Palestina.
La retorica della coesistenza,
nottetempo, Roma 2011, nota 3, p. 34).
Nel maggio del 2010 la
Freedom
Flotilla,
una flottiglia di navi che trasporta attivisti internazionali, aiuti
umanitari e calcestruzzo per la ricostruzione di Gaza, tenta
di rompere l’assedio della
Striscia
in una
chiara azione di solidarietà.
Risultato: commandos
delle forze speciali dell’esercito
israeliano
attaccano in acque internazionali una delle navi, la
Mavi
Marmara,
uccidendo
nove attivisti e ferendo altre decine di persone
(Cfr. ivi, nota 3, pp. 34-35).
Resta da segnalare un
dato forse meno eclatante, ma non certo meno pervasivo e violento,
che percorre come un filo
rosso
l’intera parabola del sionismo
in Terra
di Palestina: la
costruzione
di colonie
in Cisgiordania
-
denominata, per sottolineare il diritto di Israele
sulle terre bibliche, Giudea
e Samaria
- su
terra confiscata ai palestinesi.
È un processo avviatosi dopo la guerra
dei Sei giorni,
e mai cessato. Tali colonie,
inaccessibili alla maggioranza dei palestinesi (fanno eccezione
coloro che sono ammessi a lavorarvi, secondo fonti filo-palestinesi
in condizioni molto peggiori di quelle di lavoratori israeliani di
pari livello), hanno attirato condanne da parte dei Palestinesi
e da quasi tutto il mondo.
Chi ieri si opponeva alla creazione delle colonie
paragonava spesso la situazione a quella dell'apartheid
sudafricano: fra questi vanno ricordati l'arcivescovo Desmond Tutu,
l'inviato ONU
per i diritti umani John Dugard - che considerava lo stato delle cose
ancora peggiore -, l'ex presidente statunitense Jimmy Carter; oggi
tale giudizio è condiviso anche da quelle organizzazioni
israeliane che lottano per i diritti umani e conoscono la situazione
sul terreno,
come B'Tselem.
Attualmente in Cisgiordania
e altri Territori Occupati abitano
più di 450.000
coloni ebraici.
Alcuni di loro sono motivati
dalla credenza religiosa che l'intera
Terra di
Israele
sia stata
promessa da Dio agli ebrei e che cederne anche solo un pezzo
costituisca un peccato
(altri invece sono mossi da considerazioni più pragmatiche, ad
esempio il minor costo della vita, dal momento che le
colonie
ricevono ingenti finanziamenti statali).
Lo scottante fenomeno ha destato forti critiche anche in una
parte dell’intellighenzia israeliana,
ed è stato descritto come una
cattiva interpretazione della religione ebraica.
Così, nel 1992, si esprimeva Yeshayahou Leibowitz, eminente
filosofo, polemista e scienziato israeliano
(1903-1994), intervistato da Eyal Sivan: «... Lo Stato di Israele è
fondato su un valore, e questo valore è il mantenimento del potere
ebraico violento su tutta la terra di Israele e sull'altro popolo che
vive in questa terra. È il contenuto del valore dello stato di
Israele, oggi. È per questo che ha appena versato due miliardi e
mezzo ai coloni installati nel Territori, mentre non ha denaro per
gli immigrati recenti.... Quello che considera un valore è mantenere
il potere sui Territori occupati. Non vi è denaro per migliorare il
sistema scolastico. Non vi è denaro per migliorare il sistema
sanitario... ma vi è denaro per gli assassini che si installano nei
Territori. Molto denaro: due miliardi e mezzo, l'anno scorso. In nome
di questo valore, si sacrifica la salute, l'istruzione, l'integrare
gli immigranti. Si sacrifica tutto questo per mantenere il nostro
potere sui Territori Occupati. - Chiama
assassini i coloni?
Sì, certamente» (cfr. Y. Leibowitz, L'exigence
d'être héroique s'appelle l'incitation à la révolte,
in De L'autre côté, Printemps 2007, n° 3, éditions La fabrique).
Si consideri, in sovrappiù, che ancor oggi l'immigrazione
sionista in Israele
è incoraggiata e continua, anche se i flussi più rilevanti si sono
avuti in seguito all'espulsione degli ebrei dai Paesi arabi (anni '50
e '60) e all’indomani del crollo del sistema sovietico in Europa
Orientale (1990-1991; circa un milione di persone nel decennio).
Israele ha
sempre negato, invece, il ritorno ai profughi
arabi palestinesi,
sia agli 800.000 della guerra
del 1948
(per due terzi fuggiti in Cisgiordania
e a Gaza),
che a quelli della guerra
del 1967,
argomentando che a loro è riservato lo "Stato Arabo"
previsto dall'ONU
nel 1947, e che comunque il loro numero equivale a quello dei
profughi ebrei dai paesi arabi. Per entrambe le ragioni, quindi,
spetterebbe a questi ultimi farsi carico dei rifugiati. [Da
sottolineare che il diritto
dei profughi al ritorno in patria
è sancito dall'articolo
13 della
Dichiarazione
Universale dei Diritti dell'Uomo,
approvata nel dicembre 1948, ma spesso disattesa,
e non solo da Israele]
In conclusione
Tutto ciò, Presidente
Napolitano, vogliamo ribadirlo con forza, è
parte integrante del movimento
sionista
e della sua
ideologia,
che
implicavano fin dall’inizio l’aggressiva colonizzazione della
Terra
di Palestina e
l’espulsione (o lo sterminio) dei Palestinesi
in
quanto razza inferiore!
[Non a caso le Nazioni
Unite, in
una risoluzione del 1975, equipararono
il sionismo
al razzismo,
ma la risoluzione fu poi ritirata nel 1991 come condizione da parte
di Israele
per partecipare alla Conferenza
di Madrid, propedeutica
agli accordi
di Oslo]
Come è stato pertinentemente notato, «i verbi ebraici le-hitnahel,
le
hityashev e
i nomi Hintanchalut e Hityasvut
sono stati
usati, dal 1882 sino a oggi, dal movimento sionista e poi dallo Stato
di Israele per descrivere l’espropriazione di terre in Palestina.
Questi termini significano “colonizzare”, come è stato
apertamente riconosciuto dai primi sionisti stessi. Fino alla Prima
Guerra Mondiale, il termine “colonialismo” aveva un’accezione
positiva nel contesto europeo. Ma quando l’immagine pubblica del
colonialismo è cambiata e il termine ha iniziato a connotare
negativamente le pratiche e le politiche europee di espansione, il
movimento sionista e lo Stato di Israele hanno cominciato a cercare
una traduzione più positiva di questi termini ebraici. Da
“colonizzare” si è passati a “insediarsi”. Ma anche il
termine “insediarsi” è parte costitutiva della filosofia
coloniale, come hanno messo in luce i vocabolari politici e
scientifici del XX e XXI secolo. Non esiste una via d’uscita: il
movimento sionista prima, lo Stato di Israele poi, hanno sempre
considerato gli espropri di terre palestinesi, molto spesso
accompagnati dall’espulsione dei nativi, come un atto di
colonizzazione» (Ilan Pappé, op. cit., pp. 24-25).
Sappiamo
che la maggior parte degli ebrei della Diaspora
sentono oggi un senso di attaccamento e di identificazione con
Israele; e
sappiamo anche che il distacco dalla comunità di appartenenza non è
facile, anche perché i sostenitori fanatici
di Israele
adoperano volentieri l'aggettivo antisemita
nei confronti dei loro oppositori, o persino la famigerata
(non certo per colpa del povero Theodor Lessing, assassinato dai
nazisti!) variante ebreo
che odia se stesso
se chi si oppone appartiene al medesimo gruppo etnico/religioso
(alcuni gruppi ultra-ortodossi,
come ad esempio i Neturei
Karta,
mantengono a tutt'oggi questa posizione). Per quanto ci riguarda,
come non
abbiamo mai creduto al falso ritornello della «necessaria
autodifesa» sempre sbandierato dai governi israeliani, così non
temiamo affatto l’accusa
iper-ideologica
di
«antisemitismo»,
provenga
questa dalle
«élites
sioniste» (massimamente responsabili delle nefandezze perpetrate in
nome della loro ideologia) e dai loro più o meno potenti alleati, o
ripetuta a pappagallo dai loro sudditi (come in ogni parte del mondo,
più o meno
imbambolati
e soggiogati
dalla
potente propaganda con cui esse li hanno manipolati e continuano a
manipolarli). La
nostra forza sta nei profondi, consolidati rapporti di amicizia con
ebrei che
hanno il coraggio di percorrere insieme a noi il difficile eppur
lineare sentiero della conoscenza
e della
verità, e
con altri ebrei che conosciamo solo attraverso le loro opere, ma che
con esse ci hanno insegnato a costruire e consolidare i nostri saperi
(di qui,
ad esempio, il nostro amore per la musica
e la letteratura
ebraiche,
o per il misticismo
ebraico,
uno dei patrimoni
dell’umanità).
Fra questi
ultimi spicca Ronen
Berelovich,
autore di The
Zionist Story (Storia del Sionismo,
‘testo/testimonianza’ che ci permettiamo di consigliarLe
caldamente, signor Presidente. Film documentario indipendente, è la
storia
del sionismo
e
dell’applicazione pratica di questa ideologia nella creazione dello
Stato
di Israele.
Mostra appunto, e con estrema efficacia, la
pulizia etnica, il colonialismo e l’apartheid
usati
verso la popolazione
palestinese
allo scopo di produrre uno
stato
ebraico
demograficamente “puro”.
Dobbiamo precisare che Ronen
Berelovich
è un
cittadino
israeliano che ha fatto anche parte dell’esercito israeliano come
riservista,
esperienza
questa che gli ha permesso di vivere precise fasi dell'«occupazione»
in prima persona.
Ecco le sue motivazioni:
«Ho
realizzato questo documentario affinchè nessuno in futuro possa dire
“Noi
non sapevamo” (…)
Ho un
grosso debito verso i palestinesi, semplicemente perché sono
cresciuto in Israele, nella terra di qualcun altro. Dato che molti
miei familiari furono vittime dell’Olocausto, nego il permesso al
governo israeliano e ai sionisti del mondo di usare la loro morte in
tale orribile modo. La cosa triste è che quei 6milioni di ebrei
morti per una ideologia fascista e razzista sono cinicamente usati
per giustificare e supportare un’altra ideologia fascista e
razzista».
Diversamente
da - eppure in perfetta sintonia con - Ronen,
ben consci dello status
internazionale di
cui gode oggi Israele
presso
il club
dei potenti della terra (gli affari sono affari, nevvero?!),
il
nostro debito/impegno
verso i palestinesi
è lo stesso di
sempre: quello di stare dalla
parte dei deboli. Perciò
noi non accettiamo che i palestinesi
della Galilea
e di al-Naqab
(il Negev)
continuino a subire espropri, deportazioni e confische di terre,
demolizioni di case, e siano esposti a nuove serie di leggi
razziste che cancellano i loro più essenziali e basilari diritti;
non accettiamo che i palestinesi
della Cisgiordania
continuino ad essere quotidianamente umiliati ai check-point,
arrestati senza processo, privati delle loro terre a favore dei
coloni
e della Israel
Land Authority
(la principale agenzia di Stato
che gestisce le terre di proprietà del governo
e del Jewish
National Found,
agenzia in
prima linea
nell’allocazione
di terre secondo principi discriminatori),
‘tagliati fuori’ dai propri villaggi e città a causa del sistema
di apartheid fatto
di muri e barriere che circondano le loro case (coloro che tentano di
superare questo sistema pagano
con la vita, oppure vengono arrestati!);
non accettiamo che la gente
di Gaza
sia ancora sottoposta ad una
micidiale, barbarica combinazione di assedio, bombardamenti e
incursioni
in quella che rimane la
più grande prigione a cielo aperto della terra;
non accettiamo, infine, che milioni
di rifugiati languiscano ancora nei campi profughi,
e che migliaia
di prigionieri politici continuino a marcire nelle carceri
israeliane, completamente ignorati nei loro diritti dai potenti della
terra (Cfr.
Ilan Pappé, op. cit., pp. 5-6; e nota 1, p. 34).
Inoltre,
noi detestiamo il
fatto che un tredicenne a passeggio sulla spiaggia venga ammazzato da
un colpo partito per divertimento e senso di impunità da una delle
navi
israeliane che
assediano il mare di Gaza
impedendo ai pescatori di uscire in mare o di allontanarsi più di
tanto dalla costa.
Detestiamo la
politica paranoica, aggressiva e guerrafondaia
dei governi
sionisti. Detestiamo
che
Israele sia
in possesso di armi nucleari e continui a produrle,
come detestiamo che i
suoi sommergibili atomici (dono della Germania!)
scorrazzino
sinistramente
nel Mare
Nostrum
(ossia
appartenente a tutte le genti che vi si bagnano).
Vorremmo
senz’altro vedere Netanyahu
alla
sbarra per i crimini contro l’umanità compiuti dai suoi generali.
Ma,
soprattutto, vorremmo vedere: uno
Stato
Palestinese
libero,
indipendente e protagonista all’ONU,
e non
devastato e frammentato; la
restituzione
dei territori occupati o espropriati;
Gerusalemme
città cosmopolita aperta a tutti e liberata dall’assedio degli
arroganti coloni che ne infangano la sacralità.
E
se, dopo tutto questo, noi siamo fra coloro che hanno pensieri
aberranti,
ebbene, sappia che non ce ne vergogniamo affatto, semmai, con tutto
il rispetto, proviamo molto imbarazzo per Lei, signor Presidente, e
ossequiosamente (come è dovuto alla Sua Alta Carica), Le porgiamo i
nostri saluti.
Giampaolo
Laviano & i suoi Cari Amici Ebrei