François Truffaut (Parigi, 6 febbraio 1932 - Neuilly-sur-Seine, 21
ottobre 1984) può essere senz'altro annoverato fra i grandi protagonisti
della storia del cinema. Regista, sceneggiatore, produttore e attore,
prima di esordire “dietro la macchina da presa” esercitò il proprio
'amore assoluto' per la settima arte in qualità di brillante critico
cinematografico, un destino condiviso con gli amici e colleghi Jean-Luc
Godard, Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette. I cinque
costituiranno il nucleo fondamentale dei celeberrimi «Cahiers du
cinéma», l'autorevole rivista fondata nel 1951 da André Bazin, un
critico ‘totale’ e teorico geniale (seppure ‘non sistematico’),
instancabile animatore nonché nume tutelare della maggior parte delle
iniziative volte allo svecchiamento della cultura cinematografica
francese del dopoguerra. Schematizzando necessariamente molto, sotto la
sua sapiente guida Truffaut e gli altri ‘giovani critici’ svilupperanno
sulle pagine dei «Cahiers», nel corso degli anni '50, la cosiddetta
“Politica degli autori”, ossia la valorizzazione, in ambito
cinematografico, della nozione appunto di “autore”: al di là della
superficie convenzionale imposta ai film dall’organizzazione industriale
del cinema, un “regista”, al pari di un romanziere, un musicista o un
pittore, è una personalità artistica autentica e riconoscibile, il
creatore di un linguaggio personale e di uno stile che sono espressione
di una precisa e originale concezione del mondo. È da questa vera e
propria 'fucina di idee innovative' (risultato anche dell'assidua
frequentazione dei cine-club del quartiere latino e della «Cinématèque
française» fondata e diretta da Henry Langlois, altro importantissimo
animatore culturale dell’epoca) che prenderà vita la cosiddetta
“nouvelle vague” (alla lettera: "nuova ondata"), la quale,
'metabolizzate' le migliori opere dei grandi del passato (comprese
quelle della gloriosa stagione del Neorealismo italiano appena
trascorsa), segnerà ‘convenzionalmente’ la nascita del “cinema moderno”,
ispirando di lì a poco tutta una fioritura di ”nouvelles vagues” a
livello internazionale.
Tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60, i 'giovani critici' esordiscono tutti nel lungometraggio. Truffaut nel 1959, con il magnifico “I quattrocento colpi”, film invitato a rappresentare la Francia al Festival di Cannes, ove ottiene, fra l'altro, il “Grand prix de la mise en scène” (nozione fondamentale, questa della “messa in scena”, 'desunta' da André Bazin e 'declinata' dai cinque in modi diversi). Dedicata alla memoria dello stesso Bazin (che praticamente aveva 'adottato' Truffaut, colmandone le carenze affettive e salvandolo da una gioventù alquanto problematica!), l’opera, un vero e proprio 'poema' sulla solitudine di un adolescente che sconta nell’angoscia l’indifferenza e l’ingiustizia di un mondo di adulti incapaci di comprenderlo e di aiutarlo, è il 'primo episodio' di un ciclo di cinque film che racconta la tormentata iniziazione all’età adulta di un “personaggio” davvero unico nella storia del cinema, Antoine Doinel, affidato sempre allo stesso interprete, Jean-Pierre Léaud. Sia Truffaut che Doinel sono figli di matrimoni senza amore, e scontano perciò un'infanzia e un'adolescenza difficili e turbolente. Così, se appare ben comprensibile che “l’autobiografia come progetto estetico e il tema dell'educazione” siano 'componenti strutturali' del cinema del nostro, e torneranno quindi in un modo o nell'altro in tutti i suoi capolavori, è addirittura 'sintomatico' che esse riemergano in particolare ne “Il ragazzo selvaggio” (1969) e ne “Gli anni in tasca”(1976), film consacrati ancora una volta all'infanzia e all'adolescenza («Non si finisce mai con l’infanzia, come non si finisce mai con le storie d’amore!», soleva ripetere il regista), anche se ora viste, rispettivamente, con gli occhi “da padre” e con quelli “da nonno”.
Proprio dal 'pre-finale' de “Gli anni in tasca” è tratta la sequenza, davvero memorabile, che qui proponiamo. Truffaut, che col suo 'sguardo profondamente empatico' si è estremamente divertito a “mettere in scena” una moltitudine di vivaci bambini e ragazzini, e che nelle vicissitudini di Julien ha 'ritrovato' persino “i tormenti del primo Doinel”, sembra inserire nello splendido, appassionato 'apologo' del maestro Richet - specie quando questi invita gli scolaretti non ad 'indurirsi', bensì a 'fortificarsi' - un personalissimo riflesso autobiografico e ‘pedagogico’!
Tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60, i 'giovani critici' esordiscono tutti nel lungometraggio. Truffaut nel 1959, con il magnifico “I quattrocento colpi”, film invitato a rappresentare la Francia al Festival di Cannes, ove ottiene, fra l'altro, il “Grand prix de la mise en scène” (nozione fondamentale, questa della “messa in scena”, 'desunta' da André Bazin e 'declinata' dai cinque in modi diversi). Dedicata alla memoria dello stesso Bazin (che praticamente aveva 'adottato' Truffaut, colmandone le carenze affettive e salvandolo da una gioventù alquanto problematica!), l’opera, un vero e proprio 'poema' sulla solitudine di un adolescente che sconta nell’angoscia l’indifferenza e l’ingiustizia di un mondo di adulti incapaci di comprenderlo e di aiutarlo, è il 'primo episodio' di un ciclo di cinque film che racconta la tormentata iniziazione all’età adulta di un “personaggio” davvero unico nella storia del cinema, Antoine Doinel, affidato sempre allo stesso interprete, Jean-Pierre Léaud. Sia Truffaut che Doinel sono figli di matrimoni senza amore, e scontano perciò un'infanzia e un'adolescenza difficili e turbolente. Così, se appare ben comprensibile che “l’autobiografia come progetto estetico e il tema dell'educazione” siano 'componenti strutturali' del cinema del nostro, e torneranno quindi in un modo o nell'altro in tutti i suoi capolavori, è addirittura 'sintomatico' che esse riemergano in particolare ne “Il ragazzo selvaggio” (1969) e ne “Gli anni in tasca”(1976), film consacrati ancora una volta all'infanzia e all'adolescenza («Non si finisce mai con l’infanzia, come non si finisce mai con le storie d’amore!», soleva ripetere il regista), anche se ora viste, rispettivamente, con gli occhi “da padre” e con quelli “da nonno”.
Proprio dal 'pre-finale' de “Gli anni in tasca” è tratta la sequenza, davvero memorabile, che qui proponiamo. Truffaut, che col suo 'sguardo profondamente empatico' si è estremamente divertito a “mettere in scena” una moltitudine di vivaci bambini e ragazzini, e che nelle vicissitudini di Julien ha 'ritrovato' persino “i tormenti del primo Doinel”, sembra inserire nello splendido, appassionato 'apologo' del maestro Richet - specie quando questi invita gli scolaretti non ad 'indurirsi', bensì a 'fortificarsi' - un personalissimo riflesso autobiografico e ‘pedagogico’!
Nessun commento:
Posta un commento